Unica: come tante ragazzine al mondo e come nessuna; una pianta fragilissima e tenace che prorompe nei suoi primi germogli. 12 anni, quasi 13 – in cuffia e in testa la sua musica preferita – Carmela vive a Taranto con la madre, il padre e il fratellino, frequenta la scuola, intesse parole e uscite con le amiche, cerca i primi riflessi di sé, si scopre innamorata. È il novembre 2005 ed è anche il punto in cui la sua storia devia: lacerata violata bombardata.

Un uomo, noto come “il pedofilo” del quartiere, comincia a molestarla. Con difficoltà e dolore, Carmela parla. La sua famiglia risponde con una denuncia. L’uomo, che pure ha confessato al padre della ragazzina e a una sua insegnante, nega innanzi alla polizia, l’insegnante non conferma la testimonianza. Si giunge alla diffida che però non viene rispettata. I familiari segnalano la cosa. Invano. Ma già la sua vita è altra, tra colloqui con una psicologa e il rimpicciolirsi delle libertà appena assaggiate: niente più uscite al mare con le amiche; solo mura fuori e dentro, chiusure. È allora che la sua rabbia si fa sentire e a scuola le insegnanti consigliano “un allontanamento”. Ma è “per il suo bene”…

9 Novembre 2006: Carmela infrange il divieto dei suoi e scappa di casa, non sapendo che nel giro di 4 giorni la sua anima e il suo corpo di ragazzina saranno violati e assassinati in vita 5 inenarrabili volte, tante quanti saranno i suoi stupratori, 4 di loro sconosciuti, incontrati per caso – Emanuele C. (minorenne), Massimo Carnevale, Filippo Landro e Salvatore Costanzo – uno il ragazzo di cui è innamorata, Cristian M.(17 anni), a cui per assurdo si è rivolta per cercare conforto dopo le prime due violenze.

Ricondotta a casa in stato di shock profondissimo, Carmela rivela un corpo violato dai reiterati abusi sessuali, che vengono accertati ma riportati ambiguamente nel referto ufficiale, mentre gli abiti insanguinati che indossa le sono restituiti senza alcuna perizia. Gli interrogatori in questura cominciano sottilmente a insinuare la sua responsabilità in quello che è accaduto. Sfinita, fornisce nomi e indirizzi, ma le indagini inspiegabilmente ristagnano. Credendo di supportare la figlia, i genitori, tramite il Tribunale dei Minori, si rivolgono ai Servizi sanitari. Carmela è rinchiusa nel Centro Aurora di Lecce, specializzato in violenze familiari. Qui, privata dei suoi, che può vedere solo una volta al mese, sottoposta a loro insaputa a terapia con psicofarmaci, tenta due volte la fuga. Il padre, constatate le condizioni stremate della figlia, si rivolge a un avvocato per chiedere il suo ritorno a casa. Senza avvertire la famiglia, il Tribunale dei Minori la trasferisce in un centro a Gravina dove finalmente iniziano la sospensione degli psicofarmaci. Ma troppi sono stati gli strappi le deflagrazioni le ferite. La ragazzina comincia a tornare a casa nei weekend … È il 15 aprile 2007 quando Carmela Cirella si lancia nel vuoto dal settimo piano. Sembrerebbe l’ultimo gesto, ma la sua storia va oltre la sua morte.

Il suo cuore continua a sbocciare nel cuore devastato dei suoi, e non solo. Il padre, Alfonso Frassanito (che, forza di un legame al di là della biologia, è il padre acquisito, avendo Carmela perso piccolissima quello naturale), intraprende una estenuante battaglia per vedere rispettata la memoria della figlia e la sua “assurda morte senza colpevoli” (a oggi i responsabili continuano a vivere indisturbati la loro vita). Combatte in sede processuale, scrivendo un libro e lettere, incontrando rappresentanti dello Stato e sensibilizzando, fino a fondare l’associazione Io so’ Carmela al fine di tutelare le vittime di stupro, i minori e le famiglie dagli abusi del sistema giudiziario.

Io so’Carmela”, così scriveva sul diario – ritrovato dopo la sua morte – sui muri della sua stanza, sul corpo frantumato, grido di una soggettività in lotta per la sopravvivenza in un mondo che dopo averla violata, non le credeva e la espungeva. E Io so’ Carmela è anche il graphic novel in prima persona che, grazie alla passione civile delle edizioni BeccoGiallo e al coraggio di Alessia Di Giovanni e Monica Barengo, rispettivamente autrici del testo e dei disegni, nonché nostre interlocutrici in queste pagine, proprio dal diario intreccia una narrazione rispettosa e attenta al minimo dettaglio dell’anima e dell’immagine. “Mi sono sempre piaciute le cose malconce. Si possono sempre ricucire”. “Io non ci sto a essere una vittima, non ci sto a essere una martire, voglio solo essere me, me e basta”.

Alessia Di Giovanni, come e da chi è nato il progetto?

È nato da me. Stavo lavorando sul tema della violenza sulle donne e volevo continuare in questa direzione. Così quando ho sentito la vicenda di Carmela mi sono attivata subito. Consideriamo che allora non si parlava quasi di femminicidio e che questa storia era veramente il paradigma di quello che non dovrebbe mai succedere: una ragazzina che denuncia la violenza che ha subito e che invece di essere aiutata viene rinchiusa in un centro di recupero. Ma a convincermi definitivamente a raccontare è stato poi l’incontro con il padre di Carmela. Lui mi ha mandato il libro che aveva scritto. E anche se me ne sono servita poco perché ho potuto attingere al diario e ascoltare la sua stessa narrazione, su queste testimonianze ci siamo basate con Monica Barengo per ideare il soggetto del fumetto. Quello che ci premeva era la parte umana, emotiva di questa vicenda: i dettagli giudiziari stanno in calce al libro, noi volevamo invece raccontare la storia di una ragazza che si trova da un momento all’altro ad attraversare qualcosa di agghiacciante, durante e dopo la violenza.

Quale è stato il rapporto con il diario,dapprima come lettricee poidal punto di vista della scrittura del testo.

Come lettrice l’ho trovato molto di confine tra emozioni profonde e mature e una ingenuità che mi ha commosso. Del resto anche Carmela era così, non più una bambina, perché a 13 anni si forma il sesso, ma non ancora una ragazza. Mi sono trovata in mano l’anima di una persona e mi è entrata sottopelle. È stato come indossare una tuta e tirare su la zip: improvvisamente ero dentro il mondo di questa ragazzina …

Questo è un diario molto particolare: a un certo punto è gettato da Carmela stessa nel cestino e poi ritrovato dopo la sua morte; a quel punto assume valenza giudiziaria. Prima istintivamente ho usato la parola “lettrice” che è insolita per un diario che solitamente si presume pensato come personale e inaccessibile. Allora ti chiedo se si sente tra le righe come un desiderio da parte di Carmela di condividere la sua solitudine con un ipotetico lettore, a mo’ di messaggio in bottiglia …

Sì, mi è arrivata molto nitida l’energia della scrittura come modo per oggettivizzare il suo dolore. Infatti comincia il diario dicendo “Questa è la storia più brutta della mia vita …”. E anche il momento in cui lo getta via è un modo per dire: a me non è successo; c’è in lei un profondo senso di vergogna perché sa che le persone l’additeranno. E anche se pochi giorni dopo decide di suicidarsi, Carmela prova fortemente a autosalvarsi: anche il suo continuo ripetere, voglio vedere i miei genitori, mi mancate, è il suo mantra, la sua ancora di salvezza: vuole semplicemente riprendersi la sua vita.

In questa storia i violentatori non sono gli unici a fare del male a Carmela, gli “attori” in campo sono diversi: gli insegnanti a scuola, i poliziotti della questura, alcuni psicologi dei centri di recupero, il sistema giudiziario. Assistiamo a una dinamica ricorrente nei casi di denuncia di violenza: la vittima è trasformata in accusata, “rivittimizzata”, ripetutamente offesa e bollata come “puttana”; in questo caso si opera anche un processo di alienazione della persona, internandola in un centro. Rispetto a tutto questo, mi ha toccato il dettaglio “cecoviano” del gabbiano con cui Carmela ha un contatto davanti alla scuola e il suo dire all’insegnante: “le dà fastidio che muoia o che muoia davanti ai suoi occhi?” Se è vero la violenza sulle donne non è più argomento taciuto o marginale fino al controverso recentissimo dibattito intorno alla L.1540 (ampiamente trattato su queste pagine e sul blog Antiviolenza di Luisa Betti), quanto da parte vostra c’era il desiderio di raccontare il fenomeno come qualcosa che è ancora fortemente oggetto di negazione sociale?

Al particolare del gabbiano tenevamo molto: rimanda tra l’altro all’aleggiare nel vento nel momento in cui Carmela scappa di casa e va sulla spiaggia. Allora ha un grande respiro innanzi al mare, un’apertura che la fa sentire libera e che ritorna nel movimento del vestito che sventola leggero nel finale. Carmela dava fastidio perché era come un semaforo che segnalava il rimosso di un’intera società, su di lei c’era scritto qualcosa di indicibile e quindi relegarla in un angolo consentiva di non vedere quello che può succedere a qualunque bambina, adolescente o donna. D’altra parte, ognuna/o può cercare di fare qualcosa per opporsi a questo occultamento della verità. Per questo è essenziale analizzare quella parte grigia di noi dove accade la violenza, mettere a fuoco certe strutture mentali, gli stereotipi cristallizzati di cosa sia uomo e cosa donna, che sono responsabili di situazioni come quelle accadute a Carmela.

Vorrei ora soffermarmi su quel confine tra la bambina e la donna, di cui prima dicevamo (per il suo compleanno il padre può ancora regalare a Carmela una bambola), sulla sua ricerca d’amore (“penso troppo all’amore”), e sulla sua difficoltà a realizzarla in modo per lei soddisfacente. Tra coloro che la violentano c’è Cristian, il ragazzo di cui è innamorata, che non si comporta differentemente dagli altri … Quanto l’elemento dell’amore è stato determinante nella scrittura del testo? Dove parlando di amore non alludo a una interpretazione strumentale della parola, a lungo usata in funzione giustificatoria della violenza – pensiamo al delitto d’onore o al delitto passionale – ma a quella contiguità tra affettività e violenza che attiene al profondo e, nel caso dell’uomo, a quella dicotomia esplosiva, di cui acutamente scrive Lea Melandri, tra inermità della nascita e desiderio di autonomia e potere.

L’amore c’entra moltissimo. Quello che Carmela subisce da Cristian si può ricondurre alla violenza domestica, a un amore malato ma anche ai meccanismi interni della coppia: nel senso che non solo Cristian commette un crimine nel rapportarsi in modo violento a Carmela, ma che al tempo stesso Carmela cerca amore dalla persona sbagliata. Io credo di sapere cosa potrebbe essere l’amore ma so anche realisticamente che cosa è l’amore che cosa può racchiudersi dentro questa parola: il bisogno, lo stato di necessità di qualcosa che riempia la vita e le pagine, che colmi voragini e angosce. Carmela aveva bisogno di essere amata perché era disperata e questo la poneva in uno stato di grandissima fragilità. Quando è andata da Cristian, si sentiva in colpa per essere scappata contro la volontà della famiglia, sentiva quasi di aver meritato la violenza e aveva assolutamente bisogno di qualcuno che la riportasse a casa e la salvasse. In realtà sappiamo che la salvezza può arrivare soltanto da noi stessi, ma Carmela era troppo giovane e troppo oppressa per percepirlo. Tutto questo rende ancora più atroce il comportamento di Cristian, il suo usare quell’amore per accartocciarlo e gettarlo via.

La metafora del corpo scatola faceva parte del diario?

No, ma c’è una frase che me l’ha fatta venire in mente … parlava del chiudersi e del richiudersi. Poi con Monica abbiamo deciso che fosse rossa in modo da rimandare alla felpa di Carmela. Quando inizia la storia lei si presenta come una ragazza molto aperta che vuole assolutamente vivere e poi, poco per volta, si rinchiude in se stessa.

Su Carmela sono strati scritti testi, poesie e canzoni. Cosa apporta di differente il linguaggio del fumetto?

A differenza del cinema dà modo di leggere un’immagine con il proprio ritmo, cosa che qui è cruciale, dà la possibilità di stare con la storia. Nello stesso tempo ha anche la capacità di trascendere il reale attraverso le immagini e quindi dà una libertà di trasfigurazione che era in qualche modo dovuta a Carmela.

Più volte hai citato Monica Barengo. Si è trattato di un processo creativo comune?

All’inizio, quando effettuo le ricerche e le interviste, lavoro sempre da sola. Poi, quando entrano in gioco le immagini, il processo diventa comune. Con Monica abbiamo lavorato in grande sintonia. Ci siamo scambiate idee e immagini, cercando l’atmosfera giusta. In realtà siamo state in tre perché Carmela era sempre con noi. Ascoltavo le canzoni che piacevano a lei (che ritornano nel testo), mi accompagnava durante le mie giornate e prima di addormentarmi le parlavo … Non è stata solo un personaggio, ma una nostra amica.

Alessia Di Giovanni, trent’anni, scrive romanzi e sceneggiature, testi per la radio e la televisione, ha diretto corti, pièce teatrali e il lungometraggio A pezzi. Con Daniele Statella ha fondato lo studio Creativecomics.