Carlotta Altimari, 43 anni, fiorentina, ha un temperamento che sarebbe piaciuto a Lina Wertmüller. Anche la sua storia di donna, mamma e operaia avrebbe potuto essere un buon plot per la sceneggiatura di un film di amore, di lotta e di politica. Carlotta del Coordinamento donne Gkn, prima della pandemia aveva lasciato il lavoro avendo il marito in stabilimento. «Uno stipendio c’era e ci bastava – aveva spiegato in una iniziativa del Collettivo di Fabbrica – poi è cambiato tutto e sono tornata a lavorare. Da precaria e senza prospettive, perché se va bene mi rinnovano il contratto a tre mesi. Ma alle mie compagne va peggio. Tante sono immigrate, costrette a subire ogni sorta di molestia, anche sessuale, per mantenere la famiglia qui e mandare qualche soldo al loro paese».

Carlotta, a vederti e sentirti parlare hai l’aria di chi è vissuta sempre sulle barricate. Magari è solo un’impressione…
Vengo da una famiglia di donne con la D maiuscola, che hanno avuto il loro daffare, un po’ per la loro instabilità sentimentale, un po’ perché la vita è fatta così. Mia mamma Paola è rimasta incinta a 17 anni, e anche se erano innamorati il mio babbo se n’è andato. Sono nata io, e in un primo momento ho preso il cognome materno, Mantelli. Poi lei ha incontrato un suo coetaneo, Francesco Altimari, si sono messi insieme e quando avevo otto mesi mi ha riconosciuta. Da allora porto questo cognome, con orgoglio perché lui, un operaio, gran lavoratore, era innamorato della mamma e di me. Sono stati insieme 12 anni, una bella storia che poi però è finita. Così nella casa di Calenzano siamo rimaste in cinque, tutte donne: la bisnonna Neva Pastacaldi, la nonna Francesca, mia mamma e mia zia Marta. Un’ infanzia felice, ero la bambina più spensierata che si possa immaginare, e quando arrivò l’attuale compagno della mamma, Claudio, lui mi considerò subito la sua terza figlia.

Che idee avevi da piccola? Come ti vedevi da grande ?
In casa nostra l’arte è sempre stata importante, pensa che all’esame di quinta elementare replicai un disegno di Modigliani. Disegnano anche la mamma e la zia, così alle superiori decisi di andare all’Istituto d’Arte di Porta Romana. Alla mamma era stato impedito di andarci, e lei per reazione si era messa subito a lavorare, a 15 anni. Così io, fin da piccola, dicevo che avrei fatto quello che avrebbe voluto fare lei. La scuola mi piaceva, ma non l’ho finita: a 17 anni mi innamoro del lavoro e finisco prima in un maglificio e poi in una ditta metalmeccanica, la cooperativa “l’Aurora”, che fabbricava fra l’altro macchinette da caffè per conto di Ariete. Un lavoro da catena di montaggio. Io ero alla linea del Fornetto di San Gennaro, quelli in cui si cuocevano le pizze. Avevo il pensiero fisso che la catena mi atrofizzasse il cervello, ma l’ho fatta per due anni. E lì ho conosciuto mio marito Simone.

Una storia d’amore che dura ancora oggi. Quanto vi ha aiutato in questi mesi difficilissimi?
Lui era simpatico, ci chiacchieravo volentieri. Alla fine si dichiarò. Io avevo 20 anni e una paura matta di rovinare una bellissima amicizia. Ma lo stomaco dava segnali inequivocabili. Comunque continuai a lavorare anche dopo sposati. Sempre metalmeccanica, magazziniera in una azienda di Calenzano che produceva apparecchi di rilevamento dei gas di scarico delle auto. L’azienda si chiamava prima Protec e poi diventò Seltec. Ci sono stata undici anni, fino al 2010. E lì sono diventata delegata sindacale nella Rsu, per la Fiom Cgil.

Anni formativi, immagino. Ne hai un buon ricordo?
Alla fine purtroppo l’azienda fallì, ma è stata un’esperienza importante. Con i compagni e le compagne di lavoro siamo rimasti amici, e in quegli anni sono nati prima Adelaide, nel 2004, e poi nel 2010 Gregorio. Al solito mi feci notare: finimmo per protestare sul tetto del capannone, quando un’azienda di Bergamo ci voleva acquistare ma trasferirci in blocco in Lombardia. Intanto Simone era diventato operaio alla Gkn, dove però non assumevano donne. Allora colsi l’occasione per fare la mamma, visto che Adelaide era in prima elementare e Gregorio un neonato. Per un paio d’anni andammo avanti così, utilizzando cig e mobilità. Ma dopo ripresi, anche se da allora ho avuto soltanto contratti precari. Prima in una ditta di minuterie metalliche, poi in una azienda che si occupa del controllo qualità degli accessori auto. Tutti lavori trovati tramite agenzia interinale, perché oggi è l’unico modo per avere un impiego. Poi, due anni fa, quando si è sentita male mia suocera che era stata meravigliosa a tirare su i ragazzi, con Simone abbiamo deciso che uno stipendio in casa poteva bastare, e io mi sono occupata dei ragazzi e di lei, fino alla fine.

Così arriviamo all’oggi.
Davvero. Prima la pandemia, quando a portare avanti il Paese sono stati gli operai come Simone, e poi questo 2021. Quando è arrivata la notizia che la Gkn chiudeva, e che tutti sarebbero stati licenziati, in casa abbiamo vissuto un momento difficilissimo. Avevo ripreso, sempre da precaria, in una piccola azienda metalmeccanica, con tante compagne di lavoro immigrate. Vedendo quello che succedeva in ditta, specialmente a loro, ho deciso di raccontare questa storia di quotidiane vessazioni ai danni di chi è più debole. E ho deciso: se posso essere la voce di una donna, anche di una sola, mi prendo la responsabilità di farlo. Anche questo è stato un insegnamento della vertenza Gkn.