«Foto così le saprei fare anch’io», «Ho fotografato anch’io cieli e nuvole ma ho fatto di meglio», «Se non fossero state scattate da Carlo Verdone queste foto non se le filerebbe nessuno». Non è difficile immaginare alcuni commenti un po’ velenosi e sbrigativi sia di un visitatore medio sia di chi ha dimestichezza con la fotografia alla mostra fotografica «Carlo Verdone. Nuvole e colori» inaugurata il 30 luglio al Museo Madre di Napoli. Ma ci può stare, perché la visita a questa insolita mostra dedicata al grande attore e regista romano, primo evento partorito dalla nuova collaborazione tra La Milanesiana ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi e il Museo napoletano, prevede le trappole dell’approccio metonimico (vista una foto, viste tutte) e dell’equivoco della serialità per quei blocchi tematici che prevedono la successione di fotografie simili o apparentemente uguali.

In realtà questo non è l’unico caso di produzione artistica (pittorica o fotografica) che va de e ricontestualizzata e poi risemantizzata per avere il giusto sguardo d’insieme significante. La mostra curata dalla stessa Sgarbi e Paolo Mereghetti che dopo la «prima» nazionale al Madre (dove resterà fino al primo novembre) sarà portata in altri musei di arte contemporanea italiani, vede esposti 42 scatti inediti di Verdone che per la prima volta condivide con il pubblico la sua passione per la fotografia. «È un nuovo esordio, un debutto come fotografo, è la prima volta che mi vedo esposto e ieri ho passato dieci minuti immobile a chiedermi, ma io ho fatto questo?», ha detto l’autore di Un sacco bello commentando la mostra all’inaugurazione. «Vedere le mie foto – ha aggiunto Verdone – così incorniciate e stampate in grande formato, mi ha colpito. Viste così hanno un ordine logico. Per me poi è molto bello ed emozionante partire da Napoli che è una città di grande cultura, sensibilissima, sono felice di partire da qui, dal Madre».

L’allestimento invece non può non suscitare una reazione di ammirazione, sorpresa e riflessione per l’evidente «contrasto» tra il fotografo e l’attore-regista, tra la visione pittorica astratta dell’artista e la ricerca permanente di corpi e volti dell’autore cinematografico. Come è accaduto per altri artisti scoperti dopo o per caso e inconsapevoli loro stessi del proprio talento, anche Carlo – che sottolinea quanto deve a suo padre la conoscenza e la passione per la pittura e la fotografia, quando portava lui e i fratelli in giro nei musei e quanto lo abbia influenzato – ha tenuto nascoste a lungo le sue fotografie, che cominciò a scattare da giovane, per pudore e modestia senza farle vedere mai a nessuno, fino a quando Elisabetta Sgarbi non lo ha spinto con decisione ad aprire il suo archivio.

E ora osservando la quarantina di foto esposte, sgombri da qualsiasi preconcetto e dalla presenza ingombrante di un autore popolare, si può cogliere una prova di interiorizzazione, un moto dell’anima, un palpito reale e autentico. Si entra gradualmente in un racconto a colori del cielo e un viaggio poetico nelle forme reali e fantastiche che l’occhio dell’artista cattura nell’apparente casualità della natura. Carlo Verdone ha saputo alzare lo sguardo e fissare il cielo. E paradossalmente proprio pensando inevitabilmente per contrasto all’autore di commedie che ci hanno fatto divertire e sono entrate per alcune invenzioni linguistiche ed espressive nel nostro immaginario, si apprezzano meglio queste foto intimamente pittoriche, impregnate di suggestioni romantiche, scattate prevalentemente a Roma e in Sabina.

Le nuvole fotografate in sequenza in tutte le forme, prospettive e suggestioni si fondono con gli autunni, gli inverni, i vortici, i tramonti, le agonie della luce per comunicare che oltre l’istinto e l’attrazione per il mistero del cielo c’è di più, che dietro questo «dilettante» della fotografia si agita un uomo colto, sensibile e profondo, dietro lo scatto impressionista per hobby c’è un’inquietudine e una tensione mistica, dietro quell’inconfondibile e simpatica faccia abituata a bagni di folla e all’affetto di milioni di fan c’è una voglia di cupezza e solitudine. Carlo si considera un autodidatta che non fa ritocchi e non usa Photoshop ma cita Tiepolo, Turner, Constable, Russolo e le fonti anche musicali dei suoi lavori fotografici, dai minimalisti Brian Eno, David Sylvian, Philip Glass ai Pink Floyd, Robert Fripp e Yoko Ono.

Per entrare con la giusta sintonia nel mondo fotografico di Verdone, tutt’altro che secondario è quanto lui dice a proposito della sua passione per le nuvole: «Ho sempre abitato in attici, con grandi terrazzi, ideali per osservare panorami e tramonti. Ogni stagione ha le sue tonalità, la sua cifra cromatica, la sua nitidezza e la sua opacità. Quando ero bambino mi divertivo ad alzare il naso all’insù e a fissare le nuvole cercando di decifrarle nelle loro lente mutazioni. Una volta prendevano la forma della testa di un lupo, un’altra di un mostro dalla grande bocca, un’altra di un volto comico. Da sempre il cielo richiama la mia attenzione, mi attrae ma mi inquieta anche con la poesia dei colori, la cupezza minacciosa. Mi sembra un’immensa tela sulla quale morfologie astratte si compongono e si decompongono».