La notizia della scomparsa improvvisa, un anno fa, di Carlo Vanzina ci lasciò attoniti perché se ne andava un compagno di strada, il testimone di un’epoca incanaglita dal becerume di neoricchi e parvenus. Quello che offese del Fato fu quel giocare a rimpiattino con la sua vittima. Vanzina morì per la recrudescenza di un male che si era affacciato la prima volta ben vent’anni prima e che lui era convinto di avere sconfitto. In limine mortis alcuni suoi amici inveirono contro la critica paludata che non l’aveva capito e, anzi, bistrattato. Lo sciocchezzaio raggiunse il culmine in una dichiarazione di Berlusconi («Era un grande della nostra cultura»); Christian De Sica paragonò il suo amico ai grandi del neorealismo (transeat).
Possiamo dire che Vanzina ebbe il merito di aver fotografato i cafonal anni ’80 e ’90 nell’evoluzione della commedia all’italiana verso territori più commerciali, nel confezionamento di un cinema popolare e di una commedia di costume in una forma media di spettacolo spensierato, fatto di gag e di tempismo (conosceva bene i tempi del cinema e come usare la macchina da presa). Traduceva la commedia all’italiana in termini a tratti caricaturali, la inglobava quasi, in modo metamorfosico, come l’octopus andava inglobando, poco a poco, lo sfortunato astronauta in The Quatermass Xperiment di Val Guest.
Certamente una cosa non fu subito compresa del suo cinema: il turpiloquio che lo attraversava, la battuta pecoreccia, sessista e a volte omofoba, tutto quel becerume non lo vedeva compiaciuto, al contrario egli si poneva in posizione critica nei confronti del generone romano denunciandone tutta la povertà e il pressappochismo. Fu forse questo il suo e il nostro limite: il suo, quello di non essersi fatto capire da subito preferendo le sirene del successo commerciale, il nostro quello di aver preso troppo sul serio un cinema non sempre ridanciano e, comunque, non tutto da relegare nel trash. Dovremmo parlare della definizione di cinema di serie B coniata da Tullio Kezich che tanti equivoci ingenerò. Al contrario, la definizione non ghettizzava un certo tipo di cinema ma coniava uno stile che, spesso avversato, si faceva koiné. Vanzina era figlio del grande Steno e fu sicuramente formativo trascorrere l’infanzia e l’adolescenza con degli zii come Monicelli, Scarpelli, Alberto Sordi, Mario Soldati, Comencini, Mattoli, Flaiano. Solo per fare qualche nome.
Eppure, definire il suo cinema una mera continuazione della commedia all’italiana, sempre con i dovuti distinguo s’intende, è riduttivo e fuorviante. Nel ricordarlo non vogliamo né scrivere un necrologio – ché sarebbe probabilmente offensivo per il suo cinema – né elevare un peana – ché sarebbe offensivo per la sua intelligenza -. Titoli come Divorzio all’italiana, I soliti ignoti, C’eravamo tanto amati, Amici miei, solo per fare qualche cenno, contengono un’amarezza di fondo e rappresentano il disincanto di una generazione che aveva creduto in un mondo migliore di quello uscito dalla guerra. Per non parlare delle maschere che diedero il sembiante a quelle speranze, al «motore» che ripartiva. Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Alberto Sordi rappresentavano se non un uomo nuovo sicuramente un uomo con sulle spalle il dolore patito e la forza di rinascere. Vanzina scopre Abatantuono e con lui un brand («eccezziunale veramende»); di Christian De Sica crea la fortuna che si basa su un birignao alla lunga stucchevole(in Compagni di scuola di Verdone troverà una sua dimensione credibilissima mai più esplorata). Ci pare di poter dire che il volto nuovo di questa stagione possa essere Vincenzo Salemme (ma non dimentichiamo la pratica teatrale che lo ha espresso).
Senza indugiare in troppo facili semplificazioni, la commedia all’italiana era portatrice di valori che il periodo di cui si occupa e in cui vive e lavora Vanzina non ha. L’equivoco – per rispondere a coloro che furono additati come detrattori del lavoro di Carlo ed Enrico – fu che essi non impiegarono nelle loro speculazioni strumenti sociologici ma si limitarono a registrare la realtà. Certo, si potrà confutare che quella era la realtà ma i Vanzina la infarcirono con calembour che troppo spesso strizzavano l’occhio al box office.
Ci piace ricordare due film in particolare: Il pranzo della domenica e Non si ruba a casa dei ladri. In quest’ultimo, nella descrizione di una singolare lotta di classe, nell’antagonismo fra una coppia di borghesi in disgrazia e un’altra di parvenus si riscontrano echi di Lubitsch e,nella descrizione di un happy end inaspettato, di Frank Capra. Il pranzo della domenica è un dramma borghese. Una vedova, dopo una caduta rovinosa che le ha procurato la frattura del femore, impone ai suoi figli di raccogliersi ogni domenica intorno al suo desco. È durante uno di questi pranzi coatti che scoppiano le contraddizioni. Tre figlie con i relativi mariti scoprono che il legame dell’una con le altre è basato sulle recriminazioni e non sulla gioia. Ci sono nel film echi di Antonioni, rimandi a Interiors di Allen ma, soprattutto, di Ingmar Bergman nella descrizione di esseri infelici, repressi, in continua conflittualità con gli interlocutori ai quali sono legati, un tempo dall’affetto oggi dal risentimento e dal rancore. Inoltre, alcune atmosfere ricordano il teatro di Ibsen: la cupezza, il non detto, il senso di vuoto nello scoprire che quell’esperienza è giunta al termine. Senza tacere della lettura di un testo basico, La morte della famiglia di Cooper, anche se testo e pratica facevano da contraltare ad una realtà altra in cui Carlo aveva vissuto con un padre e mentore quale Stefano e il fratello Enrico con il quale ebbe un legame fortissimo e irripetibile.
Carlo Vanzina è stato un uomo di talento, elegante, sobrio, rispettoso, colto e noi avremmo voluto che continuasse a lavorare. Le opere della maturità, ne siamo certi, avrebbero avuto una completezza che non tutti i suoi film hanno.