La contraddizione rappresentata dal cinema di Carlo (ed Enrico Vanzina) è di essere transitati, quasi senza soluzione di continuità, da un’idea di cinema popolare, minimo, artigianale, a un cinema divenuto poi maggioritario (realizzato sovente all’ombra di Mediaset).

In questa transizione non si cela tanto un giudizio ideologico o moralistico, quanto la traiettoria di una larga parte della società italiana e in questo il cinema vanziniano è stato di una precisione a suo modo “documentaria”. La commedia italiana artigianale, esemplificata al suo meglio dal tocco invisibile di Mario Mattoli o Camillo Mastrocinque, di cui Carlo Vanzina e il suo modo di fare cinema discreto è parte integrante, si sognava borghese ma non lo era.

Osservava le trasformazioni della società attraverso uno sguardo ironico, a volte approssimativo nel suo moralismo, che recava ancora il sapore di una provincia idealizzata e la nostalgia di un mondo rurale scomparso. La lotta con la modernità di neopatentati, aspiranti medioborghesi, maggiorenni senza troppe prospettive e impulsi di liberazione sessuale spingevano alla superficie di un bianco e nero e di una frontalità da avanspettacolo, dando vita a un irrefrenabile carosello dei sogni del benessere.

Quel benessere che il cinema italiano ha sempre raccontato alla stregua di un totem nazionale. Carlo Vanzina – scomparso l’8 luglio a 67 anni – inizia a fare cinema dopo avere scavallato la seconda metà degli anni Settanta. Era un figlio delle stelle, lui (il mito della discoteca come non luogo assoluto più vero del vero…). Aiuto di Mario Monicelli, ma non ne ha mai assorbito la cattiveria e il veleno. Vanzina, in fondo, era affascinato dal bestiario della commedia umana e italiana in particolare. E il benessere è stato da sempre il cardine intorno al quale s’imperniavano le sue riflessioni sulla società italiana.

Sin dal suo primissimo film, Luna di miele in tre, nel quale compare anche Harry Reems, il ginecologo superdotato di Linda Lovelace in Gola profonda. Vero: i Vanzina sono stati trattati male aprioristicamente e Carlo quasi mai considerato come regista. Vero: ci siamo definiti “vanziniani” anche per insofferenza nei confronti di un cinema borghese senza anima che si pensava di sinistra. Sarebbe però ingiusto non ammettere che in fondo Vanzina è stato il peggiore nemico di sé stesso.

Troppi film tirati via, anche se la sua invidiabile energia, da vero cinematografaro, gli permetteva di lavorare al ritmo di due film all’anno (a volte di più, quando si trattava di televisione…). Sovente, quindi, per apprezzarli, si ricorreva alla sociologia spicciola. E invece Carlo Vanzina regista lo è stato per davvero. Sapeva sempre come inquadrare un attore, come creargli intorno lo spazio per la circolazione delle battute. Sapeva filmare l’alchimia comica fra gli interpreti e, soprattutto, sapeva dissimulare la sua malinconia gentile che in fondo era difficile immaginare dietro un carattere non facile, pungente.

E soprattutto, aveva una straordinaria dimestichezza con le forme del tempo. Sapeva come dar corpo a una nostalgia non collusa, gentile, non reazionaria. Basti pensare a quello che forse è il maggior rimpianto di Vanzina, Il cielo in una stanza, uno dei pochi film a non avere incassato quanto avrebbe meritato, per comprendere il tocco di un autore che sovente si è silenziato da solo. Non solo: un film maggiore come Il pranzo della domenica, tutto incentrato su personaggi colti fra le crepe del tempo. Il tocco mattoliniano di Vanzina diventava traslucido come in un effetto di torsione paramnestica, ma la battuta, fulminea, stava sempre in agguato: guai a prendersi sul serio. Tutto, ma non questo!

E poi: a Vanzina piacevano i generi. Il giallo, il thriller, il film in costume, la fantascienza (i viaggi nel tempo…). A volte si aveva l’impressione che Carlo (con la complicità di Enrico) avesse assunto su di sé il compito di tenere in vita un’idea e l’industria di un cinema italiano che non c’erano più. Inseguire i volti, le mode e i tormentoni del momento però non gli ha giovato (per dire, ci sarà pure una differenza fra Billi e Riva e le creature di Mediaset…), così come il mancato controllo degli interpreti ha danneggiato moltissimo i loro ultimi film. E poi, negli ultimissimi si era fatto largo anche un certo cinismo nei confronti della confezione (macro segno di tutto quanto continuava a cambiare e storia che si ripete…).

Stanchezza? I migliori film di Carlo Vanzina ci lasciano, invece, il desiderio di tutti quelli che non ha fatto o che ha scelto di non fare, assecondando una macchina che ha sfornato successi, segnato almeno due decenni, ma che avrebbe senz’altro potuto dare di più. Restano dunque piccoli capolavori e ottimi film e non è poco. E, a modo suo, inconfondibilmente suo, inconfondibilmente vanziniano, il racconto di una società italiana e di un cinema che non ci sono più (ma che forse non ci sono stati mai…).

 

Dieci film “vanziniani”

Arrivano i gatti (1980)

Umorismo surreale e fenomeno di costume. Esemplare.

– I fichissimi (1981)

Abantantuono versus Calà: scontro ai vertici.

Eccezzziunale… veramente (1982)

Lo dice il titolo stesso e c’è poco da aggiungere

– Sapore di mare (1983)

L’amarcord di una generazione

Vacanze di Natale (1983)

… E il resto è storia

Sotto il vestito niente (1985)

Un thriller che ha lasciato il segno

Piedipiatti (1991)

Montesano e Pozzetto per rilanciare il poliziesco urbano

Il cielo in una stanza (1999)

Forse il Vanzina più “bello”

Quel che le ragazze non dicono (2000)

Sophisticated comedy

Il pranzo della domenica (2003)

Il Vanzina che non ti aspetti