Esistono due modi di guardare ai fenomeni storici e artistici. L’uno è quello di osservare i contrasti, gli elementi di reazione e rottura attraverso i quali le generazioni più giovani s’oppongono alle passate; l’altro consiste nel far ris– altare, viceversa, gli elementi di continuità che corrono da uno stile all’altro, le variabili individuali, le trasversalità, le metamorfosi, piuttosto che le rivoluzioni. E se entrambi i metodi hanno dei limiti, Carlo Ludovico Ragghianti fra questi due partiti non fu mai indeciso. Ne fanno prova le tesi ch’egli portò avanti sulla pittura dell’Ottocento, argomento dello scrupoloso e intelligente libro di Manuel Barrese «Solo con l’Ottocento l’autonomia dell’arte» Carlo Ludovico Ragghianti e la cultura artistico-architettonica dal Neoclassicismo alla stagione del Liberty (Fondazione Ragghianti, pp. 216, euro 18,00).

Cominciò giovane, Ragghianti, su questa via giacché, già in una pubblicazione del 1944, Impressionismo edito da Chiantore, s’era opposto all’idea di Lionello Venturi che tra pittori come Monet, Renoir, Degas, Sisley esistesse una reale prossimità linguistica: «poco uniti da vincoli reciproci, o di scuola o di tendenza» egli, invece, li diceva. Così, quando uscì il famoso volume di John Rewald (la cui edizione italiana, Sansoni, venne vidimata da Roberto Longhi), Ragghianti contestò all’autore d’aver fatto d’individualità tanto diverse un unico fascio col quale accendere il grande fuoco della modernità.

Barrese ripercorre con attenzione la gestazione di questo studio, le polemiche con l’editore, la timida accoglienza da parte della critica e soprattutto i dubbi e i ripensamenti da parte di Ragghianti. Sì, perché da questo accurato lavoro di Barrese emerge soprattutto il continuo travaglio del critico lucchese che con le dita sottili del pensiero andava disfacendo il monumentale castello d’idées reçues, d’abitudini, di tradizioni esegetiche. Soprattutto non gli piaceva vedere gli artisti schierati in ordine come un battaglione, gli uni contro gli altri, accademici contro innovatori, classicisti contro romantici, frigidi contro appassionati, un po’ alla maniera di quella vignetta che circolava nell’Ottocento in cui si vedevano due cavalieri affrontarsi: l’uno era Ingres con la matita in resta, l’altro era Delacroix e aveva il pennello.

Ma Ingres, diceva Ragghianti, giunse a un grado d’astrazione tale da avvicinarsi a quei primitivi che poi avrebbero avuto l’importanza che si sa nel Novecento. E non si dimentichi, continuava, quanto fosse ammirato da Picasso. E Canova, dal canto suo, nei disegni aspira a tutt’altro dalla nobile compostezza raccomandata dal Winckelmann. Perché allora contrapporli allo spirito nuovo, facendone dei passatisti, dei pedissequi discepoli degli Antichi? Nello studiare Adriano Cecioni trovò che solo una visione monolitica e teleologica della pittura del XIX secolo, come quella che egli attribuiva a Longhi e a Venturi, con l’impressionismo a unica pietra di paragone della modernità, poteva condurre a sottovalutarne la figura al punto da preferire ai suoi scritti quelli di un Diego Martelli.

Ma, più in generale, Ragghianti considerava che tutto l’Ottocento andasse rivisto con sguardo scevro di quelle molte pregiudiziose idee per le quali esistevano soltanto i passatisti e gli incendiari, i retrogradi e gli innovatori.

«Ragghianti – scrive Barrese – in più frangenti della sua attività critica, volle ribadire la possibile incidenza sul lessico delle avanguardie storiche di stilemi normalmente tacciati di retroguardia; le opere moderniste, anche le più audaci – tentò di sensibilizzare in vari contributi – non nascevano ex abrupto ma traevano linfa vitale da un ramificato, e contraddittorio, universo di relazioni estetiche». Questo universo di relazioni estetiche rendeva problematiche le schematizzazioni, le quali, non soltanto finivano per appiattire su un denominatore comune le posizioni delle singole personalità, ma soprattutto trascuravano la fertile polivalenza di ogni singolo lascito artistico. In pittura, sembrava dire, avviene lo stesso che con l’energia: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto piuttosto si trasforma.

Anche il Futurismo, d’altra parte, che dei vari movimenti novecenteschi fu quello che con più ostentata burbanza proclamò il suo rifiuto della lingua dei padri, non sorse nel deserto: i suoi prodromi potevano individuarsi perfino in pittori come Boldini che la vulgata vuole mondano e virtuoso corrivo. Ma pure questo di ritrattista per signore non è per Ragghianti se non un preconcetto: egli ne esamina alcuni schizzi, come I dragoni a cavallo (1898), trovando «non dirò una precedenza ma una superiorità in sintesi e veemenza, delle ricerche dinamiche, o di vibrazioni ottimali, su quella posteriore di Balla e di Boccioni».

«Quando venne incaricato – ricorda Barrese – dalla Biennale di Venezia di curare una grande mostra rievocativa sul Futurismo – mostra che, com’è noto, venne realizzata con criteri opposti a quelli originariamente concepiti (1960) – egli tentò di far esporre i pittori e gli scultori ‘passatisti’ a cui Boccioni e compagni si contrapposero. Diligentemente appuntati nelle carte di lavoro dello studioso troviamo infatti i nomi di Balestrieri, Cifariello, Corcos, Sartorio, Trentacoste, Tito e altri bistrattati eroi dell’Accademia».
Ci furono poi gli studi sul liberty, linguaggio, come quegli altri, già classificato: stile d’intérieur, il rifugio del borghese l’aveva definito Benjamin. In Italia per di più vi gravava un’ombra di provincialismo: le sue fioriture evocavano gli amori dannunziani, così come venivano imitati dai capiufficio dei romanzi di Italo Svevo. Cionondimeno pure questa concezione granitica dell’art nouveau agli occhi di Ragghianti apparve vuota di senso. Come già aveva fatto in precedenti occasioni, cominciò a scomporre e distinguere. Innanzitutto, notò, nel Saggio di analisi linguistica dell’architettura moderna (Casabella, 1937), come si trattasse di un gusto più colto di quel che normalmente si pensava: architetti quali Behrens, Berlage, Hoffmann, Olbrich, Wagner dimostrarono di conoscere in maniera tutt’altro che superficiale il repertorio di forme del gotico, del barocco, e perfino i modelli orientali. Quanto alla loro presunta arretratezza, molte di queste costruzioni anticipavano il razionalismo.

Come si vede da questa breve scorsa dei temi trattati, il titolo non rende perfetta giustizia al libro, giacché Barrese non si è limitato a descrivere l’apporto di Ragghianti alla conoscenza dell’Ottocento, ma, attraverso un’attenta analisi delle carte, ne ha descritto anche il metodo critico e ne ha fatto un utile, rigoroso ritratto.