Quanti film ci ammoniscono che il cinema è fatica? Non è il caso di Carlo Ludovico Bragaglia. Il segreto del suo cinema è nella facilità, si vede il sasso ma non la mano. I suoi film più riusciti – tra quelli che ancor oggi è dato vedere – sono commedie dal ritmo frenetico e dalla costruzione sofisticata, «macchinette» perfettamente funzionanti che sembrano essersi fatte da sole.

«Il film è già fatto, lo dobbiamo soltanto fotografare», era solito dire alla troupe all’inizio della lavorazione con la perentoria infondatezza dei paradossi. Sin dalla prima volta che l’abbiamo incontrato alla fine degli anni Settanta, non ha esitato a regalarci un altro film: il film di quasi un secolo di cinema e dintorni, dalla Cines di Stefano Pittaluga alla Cines di Emilio Cecchi, dai telefoni bianchi alla Hollywood sul Tevere. Senza trascurare i grandi momenti che fanno storia – la complicità con i fratelli Anton Giulio e Arturo nell’avventura del fotodinamismo, la partecipazione alla prima guerra mondiale, le esperienze fondamentali della Casa d’Arte Bragaglia e del Teatro Sperimentale degli Indipendenti che lasciano il segno nella vicenda delle avanguardie – ritornava sempre al cinema per rivivere il set dei suoi film più amati da O la borsa o la vita a La fossa degli angeli, da Pazza di gioia a Se io fossi onesto, da Non ti pago! a Fuga a due voci, e incontrare ancora una volta uno stuolo di attori memorabili come Vittorio De Sica, Sergio Tofano, Armando Falconi, Nino Besozzi, Umberto Melnati, Paolo Stoppa, Maria Denis, Maria Mercader, Anna Magnani, Lilia Silvi, i De Filippo, Carlo Campanini, Guglielmo Barnabò, Enzo Biliotti, Armando Migliari, Virgilio Riento. Il loro gioco di sguardi assassini e di smorfie calcolate è tra gli incanti più indelebili di un cinema in cui si intrecciano astrazione burattinesca e umori sanguigni, innocenza e crudeltà.

Non serve fare l’appello, ci sono proprio tutti i protagonisti del cinema all’antica italiana. Sfilano in passerella uno dopo l’altro, dicono una battuta e salutano in campo lungo, giusto in tempo per rivelare un tic, un segno caratteristico, un piccolo particolare che li rende immediatamente riconoscibili.

Come il candore fanciullesco di Campanini. La voce roboante di Guglielmo Barnabò. Le scintille verbali di Zavattini. I ricciolini biondi di Massimo Serato. La recitazione da zombi di Alberto Rabagliati. Il carattere tempesta e assalto di Anna Magnani. La tenerezza di Maria Denis. La docilità di Laura Nucci. Maria Mercader trepida e bellissima. Clara Calamai che non vuole essere ripresa di spalle. Federico Fellini magro come un chiodo. Victor Mature che ha paura dei cavalli. Rhonda Fleming diligente come una maestrina.

Ma l’incontro più importante è forse quello con Totò. Il primo tentativo risale alla fine degli anni Trenta con Animali pazzi. Quando in una delle prime sequenze del film, Totò si guarda allo specchio e vede Totò che lo saluta e gli parla, ci si potrebbe aspettare che l’attore attraversi lo specchio per mettersi in contatto con il mondo del doppio e delle sue segrete alchimie, l’«aldilà» in cui tutto è capovolto nella carnevalizzazione permanente, l’«altrove» in cui abita la misteriosa comicità del grande mimo. Sfuggito sino allora al cinema – Fermo con le mani di Gero Zambuto, il precedente tentativo di farlo passare allo schermo, non aveva convinto nessuno sia per la sviante imitazione chapliniana sia per le manchevolezze della realizzazione affrettata – l’attore, dopo gli inizi nel mondo estroso e irrequieto del varietà, arricchisce la composita archeologia del personaggio, costruito a misura della sua irriducibile eccezionalità, partecipando alla stagione dell’avanspettacolo.

Ma il grande salto dal palcoscenico al cinema avviene anche questa volta solo in parte. Il soggetto di Achille Campanile – estroso decostruttore dei luoghi comuni sempre in bilico tra climax e anticlimax – probabilmente si muove nella direzione giusta più dadaista che surreale, ma il folto team di sceneggiatori con cui a un certo punto collabora anche il comico sembra moltiplicare le suggestioni parodico-romanzesche (i vincoli dell’eredità, l’idillio sentimentale, le mire della clinica veterinaria) invece di mettere a fuoco la performance dell’attore. Sdoppiato nel poveraccio pronto al suicidio e nell’aristocratico costretto a sposare la cugina per non lasciare l’eredità al sanatorio degli animali, Totò finisce con l’essere soltanto uno degli ingredienti di un’affollata galleria di personaggi e di situazioni in cui prevale il complotto per sabotare il matrimonio. Il «suonifero» sostituito al «sonnifero», che induce i presenti a cantare come in un’opera lirica, e la cavalcata su per i tetti con il cavallo imbizzarrito possono far sorridere, ma il rocambolesco salvataggio della fidanzata finita nello strapiombo ripropone il ritmo concitato delle comiche.

Nonostante tagli e ridimensionamenti del progetto originario – i più gravi riguardano le gag degli animali pazzi, per ragioni di budget sostituite alla meno peggio con anonimi spezzoni di scimmie, gatti, cavalli, tartarughe – il film è a tratti il singolare documento di un giovane Totò, appena quarantenne, magro e affilato, agile e snodabile come ci si aspetta dall’«uomo di gomma». Quando per evitare di andare a cavallo si finge ammalato, la direttrice della clinica gli manda quattro medici aguzzini che lo sottopongono a un esercizio di «disarticolazione razionale».

Il corpo burattinesco del comico, steso e piegato in vari modi, reagisce con una serie di scatti e sobbalzi, animando una irresistibile girandola di gesti e posture, in cui non è difficile scorgere la flagrante metafora di quanti, critici e cinematografari, cercano di prendere le misure se non di catturare lo sfuggente personaggio del grande napoletano, forse il momento più memorabile dell’intero film.

Soltanto nel dopoguerra l’incontro fra Bragaglia e Totò esplode con un gruppo di film considerati tra i più interessanti dell’attore. Sono quelli nei quali la parodia esalta la straordinaria capacità di riprendere uno spunto preesistente e di deformarlo con aggiunte e variazioni, in cui rivela la comicità al tempo stesso distruttiva e sorniona, irresistibile e sfuggente che gli è caratteristica. Totò risolve tutto nella mimica, nella obliquità permanente dello sguardo, nella inesauribile cangiabilità di un volto che può atteggiarsi nella bonomia o scatenarsi nella cattiveria, nella mobilità disarticolata del corpo che si fissa nel manichino o si agita nel finto pazzo, stratificate sedimentazioni di una lunga esperienza teatrale fondata sulla scansione dei movimenti, sul ritmo dei tempi scenici, sulla matematica delle entrate e delle uscite.

Nella piena esplosione della «Totomania» in Totò le Mokò (1949) la scatenata rivisitazione parodica del capolavoro di Julien Duvivier del ’37 anima uno dei film in assoluto più irresistibili e memorabili del grande attore, che gioca il tutto per tutto sull’interferenza tra la mitologia della casbah e la folgorante attualità dei giornali umoristici, evocati con una battuta, una parola, un’occhiataccia. Quando al tabarin Alì Babà, l’improbabile erede di Pépè intrattiene Gianna Maria Canale, la bellissima ma frigida straniera a caccia di emozioni «elettrizzanti», sullo sfondo la coppia di ballerini continua a volteggiare in una danza apache da manuale.

Non appena se ne vanno tra gli applausi, Totò scende in campo con nonchalance mettendosi al centro della sala, pronto a sedurre l’ospite con un saggio delle sue singolari qualità. Il suo tango è straordinario anche perché consente di vedere all’opera l’istinto di immedesimazione del comico, la sua attitudine a impadronirsi di uno spunto di partenza e di divertirsi a aggredirlo, deformarlo, stravolgerlo, facendone l’occasione di un’esibizione personalissima e inimitabile. La chiave è qui la cattiveria gratuita, l’esagerazione sadica, l’estrema ferocia con cui getta a terra la partner, la sbatte su un parapetto, la lancia in aria, le rompe una bottiglia in testa. Nel finale il sogghigno della perversità più disinibita si accompagna allo sguardo allucinato del folle.

Sottovalutato per la sua frammentarietà che gli assicura invece maggiore libertà d’azione, Totò cerca moglie (1950) è fra le «totoate» bragagliesche una delle più geniali. Se si esclude la pretestuosa cornice pseudoaustraliana, la visita in casa Bellavista, dove si presenta con un grosso paio di occhiali che gli impedisce del tutto di vedere – né più né meno dei componenti della famiglia miopi come talpe –, è uno degli appuntamenti più esilaranti dell’intero cinema di Totò e di Bragaglia.

La serata si risolve ben presto in un vortice di equivoci e di disastri che si sovrappongono uno sull’altro in un clima travolgente dalle perfette scansioni cinetiche. Nello spazio circoscritto del soggiorno borghese, la geometria delle entrate e delle uscite si avvita su se stessa con l’impudenza dello slapstick delle comiche mute, riaffermando le inesauste potenzialità del linguaggio cinematografico nei confronti del palcoscenico. Se gli altri sketch non sono altrettanto inventivi, la sequenza della festa nell’ambasciata di Papillonia, che prende di mira i giochi in codice dei film di spionaggio, è memorabile almeno per la sistematica precisione con cui, grazie a un colpo di bottiglia di champagne sugli stinchi, Totò riesce a azzoppare uno alla volta tutti gli ospiti, tra i quali sperava di confondersi Paul Müller, il trucido agente segreto detto lo Zoppo.

47 morto che parla è l’ultimo, grande film con Totò girato nel ’50, che esce prima della fine dell’anno. Lo spunto di avvio dell’omonima commedia petroliniana – contaminata con Cinque settimane in pallone di Jules Verne e L’avaro di Molière – anima alcuni dei momenti più memorabili del cinema di Totò passati in proverbio, dal rapporto vessatorio con il cameriere Carlo Croccolo («Quante volte ti devo dire che non si cammina sui tappeti! I tappeti si sciupano!») agli acquisti attenti al centesimo dal macellaio Gildo Bocci come se fossimo in farmacia, senza contare il gioco vertiginoso del resto che continua a cambiare di mano.

Ma anche la seconda parte, certo meno scoppiettante, conferma il gusto dell’attore per il macabro, l’andare su e giù tra le tombe, il vestirsi da fantasma, l’assaporare da vivo la scritta sulla lapide o lo spiare credendosi non visto i comportamenti dei sopravvissuti. Il suo cinema – quello del Totò di Bragaglia – è certamente un cinema della fretta e dell’improvvisazione. Non ci vuole molto a accorgersi che l’aldilà è stato girato alle solfatare di Pozzuoli, dove se si accende un pezzo di carta fuma tutta la montagna. Gran parte dei film sono realizzati alla svelta, tirati via in due o tre settimane al massimo, sulla base di copioni raffazzonati alla meglio. Ma è un fatto che il cinema di questo straordinario attore dell’eccesso è per molti aspetti ancora vivo, fresco, immediato, nonostante, o forse grazie, le cadute di tono, i limiti farseschi, le approssimazioni. Questo Totò ultimo della classe, da zero in condotta e zero in profitto, finisce miracolosamente con il sopravvivere a tanto serioso cinema del dopoguerra che rischia talvolta di invecchiare a vista d’occhio.

Nessuno più di lui ci ha dato l’impressione di essere sempre altrove, il principe di un paese misterioso, il contrabbandiere che attraversa le frontiere proibite, il clown che introduce nella coerenza dell’ordine stabilito la forza dirompente dell’incongruo. Senza dimenticare il grande sabotatore che traduce la violenza parodistica, il gusto di contraddire e di sbeffeggiare nel sovvertimento della lingua, nella contaminazione dei materiali linguistici con cui, tra un «eziandio» e un «tampoco», tra un «a prescindere» e un «è d’uopo», manda all’aria le convenzioni della burocrazia e dell’autorità. Straordinaria incarnazione della «zona metafisica» della commedia italiana, è l’unico in grado di sterzare nella geometrica astrazione del superburattino: «Siamo tutti burattini/burattini,/burattini,/burattini in libertà./Qui le teste son di legno,/ch’è proibito avere ingegno./Chi ragiona in questo regno/non è degno di campa’!/Qui il pensiero più profondo/è di fare il girotondo/proprio in mezzo alla città!».