Nel corso del Novecento l’utopia avanguardista ha portato la disciplina della scultura ad affermare in maniera perentoria e quasi ossessiva la capacità della materia, qualsiasi materia, di comunicare l’intento artistico semplicemente rivelando il segno o il gesto creativo dell’autore, a prescindere dalle convenzioni della tradizione. A un certo punto, gli scultori hanno persino accarezzato l’idea di potersi sbarazzare una volta per tutte dall’assillo della forma e di maneggiare direttamente il contenuto. Non è andata proprio così, in realtà si è trattato piuttosto di un aggiornamento delle questioni formali; tuttavia, la scultura ha potuto affrancarsi dal secolare obbligo alla figurazione, dall’impegno alla retorica della statuaria celebrativa, e ha guadagnato per sé le alternative che la pittura aveva ottenuto prima di lei.
Tra gli artisti italiani che hanno partecipato a questo processo di emancipazione va annoverato anche Carlo Lorenzetti (1934), al quale è attualmente dedicata una mostra, a cura di Giuseppe Appella, presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, intitolata Realtà in equilibrio (in corso fino al 30 settembre). L’esposizione riassume attraverso ottanta lavori eseguiti tra il 1956 e il 2014 la fertile carriera di un maestro della scultura che ha segnato l’ultimo periodo in cui quest’arte ha espresso valori vitali, prima del radicale cambio di codice imposto dal postmoderno.
Allievo di Alberto Girardi (1889-1965), «genio del ferro battuto», presso l’Istituto d’Arte di Roma, Lorenzetti ha studiato anche all’Académie de France a Villa Medici. Ha iniziato a insegnare non appena conseguito il diploma e nel frattempo ha avviato la propria ricerca, che non solo tralasciava la figura ma inseguiva un concetto nuovo di volume e spazialità, e rinunciando alla massa dell’elemento plastico puntava ad annullare la sensazione del peso fisico. Da qui l’uso di lastre metalliche, specialmente di ferro, da lavorare a sbalzo per «animare l’inerzia del materiale», in modo da comporre sculture astratte posizionabili a parete o a terra ma comunque in grado di «opporsi alla iniqua pesantezza del mondo». Così ha esaltato le tensioni dei profili e delle linee, e i valori delle superfici: opache, grafitate, rugginose, oppure smaltate, anodizzate, lucide.
L’esordio di Lorenzetti si compie nel panorama dell’astrazione informale dei tardi anni cinquanta e riflette suggestioni di Guerrini, Consagra, Burri. Non è un caso che sia Ettore Colla, creatore di assemblaggi in ferri di recupero e animatore della scena artistica romana, a favorire nel 1962 la prima mostra personale di Lorenzetti alla Galleria Trastevere, introducendolo a Topazia Alliata. Quella personale diventa inoltre l’occasione per incontrare Giovanni Carandente, il quale invita il giovane artista a Sculture nella città, rassegna internazionale che si tiene lo stesso anno a Spoleto per il Festival dei Due mondi: per Lorenzetti è il pretesto per misurarsi con la monumentalità (Figura spoletina). Ma Lorenzetti ha svolto un ruolo importante soprattutto rispetto al superamento della stagione informale, tramite una transizione che si concretizza, a metà anni sessanta, nell’uso dell’acciaio e nell’evoluzione verso soluzioni di severa geometria, pressoché costruttivista.
In anni in cui gli artisti tendevano a schierarsi, a raggrupparsi, spesso per mere ragioni di visibilità o accesso al circuito espositivo, Lorenzetti ha mantenuto una propria indipendenza di pensiero, proseguendo nelle sperimentazioni lungo le sue coordinate di indagine sulla leggerezza. Ciò non gli ha impedito di farcire il suo curriculum di manifestazioni e premi: Biennale di San Paolo del Brasile (1967; 1975), Biennale di Venezia (1970; 1972, con sala personale; 1976; 1986; 2011), Quadriennale di Roma (1965, 1973, 1986, 1999), ad esempio. Tra i riconoscimenti, spicca il premio Antonio Feltrinelli (1988), conferitogli dall’Accademia Nazionale dei Lincei, e il Premio Presidente della Repubblica per la Scultura (2004).
Realtà in equilibrio riannoda implicitamente un legame che ha origini lontane. Il rapporto di Lorenzetti con la Galleria nazionale infatti risale al 1959, quando lo scultore partecipa e vince il premio d’incoraggiamento per i giovani artisti promosso dal Ministero dell’Istruzione Pubblica e celebratosi proprio alla Gnam. Non solo. Più tardi, nel 1967, a seguito di una mostra alla Galleria Arco d’Alibert, Palma Bucarelli gli commissiona un’opera per le collezioni del museo: Struttura oscillante, una grande costruzione in acciaio inox e smalti colorati, che per vent’anni ha abbellito il giardino laterale sinistro della Galleria nazionale, ma che oggi per oscure ragioni risulta esclusa dalla retrospettiva. Inoltre la mostra presenta una selezione di opere grafiche di Lorenzetti, che sono un ottimo contrappunto ai lavori di scultura e un documento fondamentale per comprendere la produzione dell’artista, per il quale il disegno ha una valenza non necessariamente ristretta alla fase preparatoria delle sculture. Per analogo motivo, però, sarebbe stato altrettanto interessante avere la possibilità di ammirare qualche esemplare dei lavori di oreficeria di Lorenzetti, poiché i monili costituiscono una parte considerevole della sua attività e traducono la sua concezione plastica in una diversa dimensione.
Per il resto, secondo una prassi ormai consolidata, la Galleria nazionale evita con cura di turbare la presumibilmente bassissima soglia di attenzione del visitatore con apparati didattici, o altri strumenti che trasmettano notizie storiche, critiche e tecniche. E anche se la ripartizione delle opere nelle sale scandisce con chiarezza la successione delle varie fasi stilistiche, soltanto gli iniziati apprezzeranno davvero il senso del percorso, mentre tutti gli altri fatalmente perderanno le implicazioni storiche e dunque la statura complessiva di un artista che ha contribuito al rinnovamento della scultura nel secondo Novecento.