Sul set di La vita agra, Carlo Lizzani ritrova con nostalgia la Milano della sua prima bohème del lontano 1945 in cui Giuseppe De Santis e Gianni Puccini gli offrono la grande occasione di seguirli al Nord per fare Film d’oggi, il settimanale che avrebbe dovuto riprendere e proseguire le battaglie di «Cinema».

Sono vicende che lo stesso regista ha rievocato più volte, dal viaggio sulla camionetta traballante durato quarantott’ore tra strade sconnesse, blocchi militari, ponti impraticabili, ai primi contatti con una realtà nuova, difficile, ma esaltante: «Gran parte della città è in macerie, ma basta un primo contatto con l’ambiente giornalistico e artistico per farci sentire Roma lontana e provinciale.
Dopo anni di coprifuoco, gironzolare in una città finalmente non avara di luci, soprattutto nel triangolo di Brera, Solferino e corso Garibaldi, è un piacere così inusitato che tentiamo di assaporarlo il più a lungo possibile. Durante quelle veglie si canta, si scherza, si inventano epigrammi e favole. Il bar Giamaica e la latteria Pirovini erano centri di discussioni, festini, cene indimenticabili (fatte di qualche pallido cappuccino e di esangui omelette), e dove tanti giovani o meno giovani, pittori, letterati, musicisti, si arrovellavano come noi sui modelli artistici e comportamentali finalmente a portata di mano dopo il crollo del regime, la fine della guerra e la Liberazione».

Parecchi anni dopo, la latteria Pirovini è uno dei mitici luoghi di riferimento nella geografia milanese di La vita agra, il romanzo di Luciano Bianciardi che nel 1962, quando esce, ha un grande successo soprattutto per le intonazioni risentite e beffarde con cui coglie insieme le illusioni e le frustrazioni del neocapitalismo, che comincia a affiorare nel nostro paese. Il rapporto tra Bianciardi e Lizzani andrebbe approfondito più di quanto non sia stato fatto finora. Sia per la complessità della figura dello scrittore toscano, a cui non sono estranee le frequentazioni cinematografiche, dall’attività di organizzatore di cineclub alla sarcastica rappresentazione di tutta un’epoca di astratti furori nella piccola bibbia di miti e riti di fine anni Cinquanta che è Il lavoro culturale del ’57. Sia per la partecipazione alla sceneggiatura del film tratto dal romanzo, non accreditata nei titoli di testa, nonostante il rilievo del suo apporto personale più volte riconosciuto dallo stesso regista.

L’effetto spiazzante è uno dei contrassegni del libro, anche quando non esita a alzare parossisticamente il tiro delle proprie ambizioni: «Costruirò la mia storia a vari livelli di tempo, di tempo voglio dire sia cronologico che sintattico. Farò squillare come ottoni gli auristi, zampognare come fagotti gli imperfetti, pagine e pagine di avoivoevo da far scendere il latte alle ginocchia, svariare i presenti dal gemito del flauto al trillo del violino alla pasta densa del violoncello, tuonare come grancasse e timpani i futuri carichi di speranza. E se proprio volete, ve li farò sentire tutti insieme, orchestrati in sintonia. Vi darò la narrativa integrale dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore, e il lettore nel suo leggere in quanto lettore, e tutti e due coinvolti insieme in quanto uomini vivi e contribuenti e cittadini e congedati dall’esercito, insomma interi».
Il film non segue il libro nelle sue oscillazioni tra l’io e lo sperimentalismo, tra l’autobiografia e il miracolo economico. Certo, inizia con Luciano Bianchi/Ugo Tognazzi che alla stazione guarda in macchina per raccontare cosa è successo prima della decisione di Anna/Giovanna Ralli di lasciarlo e ritornare a Roma e finisce con l’ultimo sguardo arreso e impotente tra loro due.

Ma in mezzo non c’è soltanto la storia di Luciano e del suo folle progetto di far saltare in aria il torracchione dell’azienda responsabile della tragedia nella miniera in cui lavorava come bibliotecario. I materiali del romanzo, ampiamente utilizzato servendosi spesso degli stessi dialoghi, sono integrati da altri spunti narrativi, attinti da L’integrazione, che risale al 1960 ma ben si adatta a allargare lo scenario de La vita agra, fino a suggerire una sorta di prosecuzione e di finale.

Il film di Carlo Lizzani, visto oggi, è di difficile collocazione nel cinema italiano dei primi sessanta. Cosa c’entra con il 1964, in cui esce? Il ’64 è l’anno di opere importanti di Antonioni, Ferreri, Maselli, Bertolucci, Germi, Pasolini. Ma nessuna sembra cogliere lucidamente il cambiamento in corso nella società italiana come La vita agra, che delinea con uno sguardo freddo, entomologico, ma capace di improvvise accensioni, la mappa del nostro futuro.

Non si contano gli sberleffi al mondo aziendale e ai suoi ambigui meccanismi di selezione, come alle case editrici con i loro ferrei criteri redazionali, preoccupati soltanto di tener lontani l’estro e l’inventiva. Né si trascura l’amara delusione nei confronti dei partiti politici, dove i rapporti umani sono sostituiti da vacui, burocratici nominalismi. L’universo della pubblicità è uno dei capitoli più vivaci con i suoi subdoli rituali di persuasione di massa attraverso cui si innesca la fiera dei bisogni inutili, coatti, artificiali. Il consumismo più dissennato si impone nell’esposizione delle merci dei grandi magazzini nelle città satelliti, dove si moltiplicano i monitor dei televisori, che già incombono con il loro ipnotico accendersi e spegnersi.

Non mancano i momenti divertenti (basterebbe pensare allo sproloquio sul sesso, che sbeffeggia il micidiale ideologismo dell’epoca), ma si ride poco e si ride amaro. Certo, i toni sono quelli della commedia, ma non viene mai in mente l’impietosa cattiveria della commedia all’italiana. Si pensa piuttosto ai toni distaccati e inconsueti di una «commedia seria» che si muove sotto il segno di Saturno, vagheggiando la bellezza della sconfitta. Sullo sfondo appare un paio di volte Enzo Jannacci che con la sua voce alla cartavetrata ribadisce la chiave della malinconia con i toni dissonanti delle sue canzoni.

Se tanti film di Lizzani si rifanno al passato, La vita agra si pone in sintonia con il presente. Non solo. È anche la soglia attraverso cui passa l’attenzione che negli anni immediatamente successivi il regista romano avrà per le cronache violente e problematiche del Nord, raccontate in diretta col ciglio asciutto, da Svegliati e uccidi (1966) a Banditi a Milano (1968), da Torino nera (1972) a San Babila ore 20: un delitto inutile (1975): «Oggi, a distanza, penso che sia stata proprio la lezione della Vita agra a farmi scegliere man mano – fra i tanti fatti di cronaca, di violenza che negli anni Sessanta dilagavano sulle pagine dei giornali – quelli in cui riconoscevo con sempre maggiore chiarezza i tratti di una società che aveva preso a correre in modo via via più febbrile verso due traguardi: il consumo e il successo».