Nell’ottobre del 1958 usciva da Garzanti, un po’ nella scia del successo del Pasticciaccio, una sostanziale raccolta di saggi di Carlo Emilio Gadda, intitolata I viaggi la morte. Nel primo risvolto di copertina una sorta di apologia da parte dell’autore stesso in veste di editore («Il guaio è che la linea del Gadda, le più volte, s’impenna e diverge dalle linee più accreditate. Lo abbiamo ciò nondimeno stampato ecc.»); e nella quarta di copertina un ritratto dell’autore di Leonella Cecchi Pieraccini (allieva di Fattori, moglie di Emilio Cecchi cui il volume era dedicato) e una molto citata nota biografica tipicamente “alla Gadda”, scritta da lui stesso: «Vive nella capitale della Repubblica a quattordici chilometri dal centro, in una casa di civile abitazione, confortato nottetempo dagli ululati dei lupi e lungo tutto il giorno dai guaiti di copiosissima prole, non sua, ma egualmente cara e benedetta».

Il titolo I viaggi la morte, secondo uno degli accoppiamenti caratteristici dell’autore (I sogni e la folgore, Divagazioni e garbuglio, ecc.) riprendeva a meno della virgola (forse ritenuta poco consona) quello baudelariano del più antico dei saggi della raccolta, uscito sulla rivista «Solaria» nell’aprile del ’27. Ma i due termini stavano più in generale, in realtà, per due caposaldi dell’animus gaddiano: da una parte l’ansia conoscitiva («Andate a veder mondo e paese» è l’invito dei Viaggi di Gulliver); e dall’altra il senso tragico, doloroso della vita, su cui incombe la «immutabile morte», (Castello di Udine), «tacita, ultima combinazione del pensiero» (La cognizione del dolore).

Ad aprire la raccolta, la dichiarazione autobiografica di «Come lavoro» dallo splendido attacco d’alto registro retorico: «Come non lavoro. Che dà egual frutto, a momenti, nella vicenda oscillante d’uno spirito fugitivo e aleatorio, chiamato dall’improbabile altrettanto e forse più che dal probabile: da una puerizia atterrita e dal dolore e dalla disciplina militare e di scuola delabante poi verso il nulla, col suo tesoro d’oscurità e d’incertezze» (fugitivo con riduzione della doppia, come ad esempio in Petrarca; il complesso polisindeto e…e… e…; un inedito participio delabante (!), «discendente», «precipitante», che piaceva a Fausto Curi; e via dicendo).

I saggi, 24 in tutto, sono distribuiti in tre sezioni di misura e di carattere diseguale; la prima, (9 saggi) delinea complessivamente una personalissima poetica; di varia la seconda sezione (13 saggi), per lo più recensioni, tra cui, defilati, I viaggi la morte, e dove nell’iniziale Terrore del dàttilo Gadda si improvvisa dialettologo. Solo due la terza sezione, ma di peso: il bellissimo Emilio e Narcisso del ‘49, una sarcastica storia delle cure educative (desunta in buona parte dalla voce della Treccani Nipiologia, del napoletano «dottor Ernesto Cacace»), con ampie citazioni dall’Émile di Rousseau e una riscrittura alla Gadda del mito di Narciso; e infine lo pseudo dialogo intitolato L’egoista (come il romanzo ottocentesco di George Meredith) tra le voci mal distinguibili di un Teofilo e di un Crisostomo, incentrato una ennesima volta sul tema dell’Io-Palo, sui rapporti tra narcisismo e egoismo e su una divertente tipologia di egoismi.

Ampio l’arco temporale di questo «insieme “pittorescamente” eteroclito»: dal 1927 dei Viaggi la morte al 1957 del Pasticciaccio; nove i saggi recenti, degli anni Cinquanta. Della struttura, in partes tres della raccolta, così come dell’ordine e in parte addirittura della scelta dei saggi che la compongono furono in primo luogo responsabili, in qualità di assistenti presso Garzanti, due giovani amici di Gadda, Pietro Citati e Attilio Bertolucci. Gadda li lasciava volentieri fare. Sono nomi di peso, che potrebbero e a rigore dovrebbero figurare quali curatori della raccolta: edited by, dunque, non diversamente dalle sincretiche Meraviglie d’Italia pubblicate da Gadda & Roscioni nel ‘64 per Einaudi (che pure non vengono in genere considerate come raccolta gaddiana a pieno titolo).

Dei saggi compresi nei Viaggi la morte Gadda, si sa, preferiva parlare come di entretiens, con la valenza familiare e dialogica che il termine aveva nella cultura letteraria francese del Novecento. Entretiens equivaleva allora grosso modo a causerie, alle Causeries du lundi di Sainte-Beuve, per esempio. E chissà che Gadda non avesse avuto notizia dell’uscita da Gallimard, nel ‘55, dell’ars poetica di L.-F. Céline, gli Entretiens avec le professeur Y.

Va comunque tenuto presente che il tono generale della raccolta, malgrado i funambolismi verbali, è davvero quello di un familiare discorrere e a volte scherzare con l’interlocutore-lettore. Da questo understatement comunicativo-stilistico non ci si deve tuttavia lasciar ingannare. La cifra vera della raccolta, tutt’altra che quella leggera del divertissement, e al di là della apparente occasionalità di alcuni dei saggi, è la professione di fede, la confessione, l’apologia. Apologia d’una personalissima ars poetica che integra come componente a pieno titolo l’Etica. Il binomio dei viaggi e della morte ricopre in sostanza quello di Ars poetica e Ars ethica; ed è così del resto che Gadda interpretava l’Arte poetica oraziana.

Carlo Emilio Gadda
Carlo Emilio Gadda

I viaggi la morte non sono una delle opere più conosciute e amate di Gadda. Una sola ristampa nel ’77, nella collana garzantiana dei «Saggi blu» (curioso che in essa il titolo del saggio eponimo sia privo di virgola), prima di confluire dal ’91, provvista di una Nota al testo di Clelia Martignoni, nel gran contenitore-mausoleo delle Opere edite da Dante Isella. Ma per poco noti che siano, I viaggi la morte contengono alcune tra le pagine più belle in assoluto di Gadda, da accostare alle pagine memorabili delle opere canoniche, l’Adalgisa, la Cognizione, il Pasticciaccio; e costantemente elevato, pur tra gli inevitabili massimi e minimi (specie nella seconda parte), è il livello generale.

Qualcuno che di Gadda se ne intendeva sosteneva una volta, conversando tra amici nelle vie milanesi attorno a Brera, che il Gadda maggiore andava cercato nell’Adalgisa, nella Cognizione e, sì, proprio nei Viaggi la morte (Dante Isella, è a lui che alludo, non amava troppo l’ambienza romanesca del Pasticciaccio).

I lettori che si accostano per la prima volta a questa raccolta saggistica sono a mio avviso da invidiare. Li aspetta quasi ad ogni pagina una festa dell’invenzione linguistica e fantastica: non per niente Gadda stesso dichiarava che I viaggi la morte era uno dei lavori che più si era divertito a scrivere. Sentenze gravi alternate a battute anche scurrili; momenti patetici e giochi di parole; penetranti analisi di testi o di momenti della storia sociale e letteraria e fulminei ritratti a sfondo autobiografico stravolto. Ne fa le spese ad esempio, verso la fine di Come lavoro, l’inviso cognato veronese Paolo Ambrosi – «el mè cü… el mè cü… el mè cügnà…», come sin vergüenza Gadda scriveva a Contini preannunciando il misfatto – immortalato «in salsa tartara» nella sua Tenuta di Cavalcaselle, dalle parti di Villafranca (l’ortaglia “degli asparagi” qualche tempo fa c’era ancora).

Va da sé che la lettura richiesta non è quella cursoria del romanzo di intrattenimento. È prosa nutriente, questa, da assumere a «cucchiaiate lente, necessarie, confortatrici», come la minestra della sera, in cascina, della famiglia contadina di Terra lombarda. La prosa dei Viaggi la morte, ma direi quasi tutta la prosa gaddiana, richiede una lettura lenta attenta intenta, intervallata da pause di riflessione e da ritorni di approfondimento sul già letto: il genere di lettura (e scrittura) auspicato in un recente bel libriccino einaudiano da Gian Luigi Beccaria: In contrattempo. Un elogio della lentezza.
Oltre che allusivo, lo stile dei Viaggi la morte è a tratti lessicalmente e sintatticamente impervio. Come e da dove salterà fuori ad esempio il participio delabante menzionato sopra? posto d’aver capito che vuol dire «declinante» «precipitante» (la -a- in rilievo è quella della prima coniugazione), appare una sola volta in tutta l’opera, è cioè uno hapax. Lontana memoria aggiustata di un delabentis oraziano (da delabor), detto di un fiume che scende cum pace nel mare etrusco? E chissà se Gadda, che amava e citava il Baldus in Fatto personale… o quasi dei Viaggi la morte, non avesse a mente l’esametro e mezzo del canto XXIV, vv. 310-11 «Semper ad in giusum facili labente camino / frettantes abeunt»: «in fretta in fretta giù per un facile sentiero in discesa» (labente); il lessicografo potrebbe addirittura estrarre dal Polifilo di Francesco Colonna un italo-latino labante.

O ancora, come sciogliere il busillis coordinativo di una enigmatica gerundiva di Come lavoro? – «… porgendo [= lo scrittore-creatore] in una e rara occasione d’esercizio al tartufare aguto dei critici e novo incentivo a sventolare a tutte le bandiere della patria, e de’ turriti municipi…» – se non si realizza che in una vale in quanto locuzione avverbiale «ad un tempo», «assieme», e che i due oggetti di porgere che vanno assieme, cioè la rara occasione e il novo incentivo, sono legati (come si era visto sopra) da una doppia e: un polisindeto, frequente modismo dell’autore. E infine, ad un grado ancora superiore di difficoltà, come elaborare l’elevato percento di astrazione, uno degli ostacoli maggiori di queste prose, nascosto proprio tra le prime righe del saggio I viaggi la morte?

Dell’ottobre del 2023 è la nuova edizione in volume autonomo (la seconda in assoluto, dunque, se non si conta la ristampa) nella «Biblioteca Adelphi» (pp. 432, € 24,00), a cura di Mariarosa Bricchi, linguista e storica della lingua, che già anni fa s’era occupata della mini-guida «per la redazione di un testo radiofonico».

In copertina del volume, immagino in presa diretta col «sogno di una fuggente tempesta» d’uno dei saggi, figura la riproduzione di un Courbet degli ultimi anni: Avant de tempête à l’horizont, un cupo paesaggio marino dalla costa normande di Étretat; e poco importerà che il nome di Courbet non sia mai stato fatto da Gadda. Il volume segue l’organizzazione generale della serie, fedele al modello pensato da Dante Isella per le Opere garzantiane: il testo nudo, accuratamente rivisto, seguito da una «Nota al testo» di carattere per l’essenziale filologico (storia e genesi del testo, eventuali varianti, ecc.), a sua volta provvista di note più o meno estese (nelle Opere a piè di pagina, qui invece in coda).
Diverso nella nuova edizione, rispetto a quella delle Opere, è in termini di pagine, ma non solo, l’equilibrio tra testo e apparato. La Nota al testo, di circa 130 pp. in corpo minore, è ora più che una semplice «nota» a servizio del testo un ampio articolato saggio in cinque capitoli, frutto di approfondite ricerche d’archivio, ricco di dati in parte inediti, e (o ma?) a tratti molto tecnico, specialistico. Questo in particolare nelle 18 pagine della quarta sezione, genetico-variantistica, che va sotto l’etichetta di «Gadda al lavoro». Lo specialista di Gadda apprezzerà, anche se di analisi variantistiche ne ha viste tante; molto meno il lettore comune – che pure dovrebbe essere il destinatario principe di una edizione che si vuole a target multiplo.

Carlo Emilio Gadda
Carlo Emilio Gadda

Al lettore non specialista che col nuovo volume Adelphi scopre o riscopre I viaggi la morte sono soprattutto utili, in assenza di un commento puntuale, le 24 pregevoli «schede» sui singoli saggi (collocate, fugge la ratio, nel paragrafo § 2.1. intitolato 1927-1037. Trent’anni, quindici riviste (e due libri), ventiquattro saggi). Schede, queste, che si vorrebbero ampliate al di là della storia del testo: per aiutare a sciogliere i passi più ardui, a seguire, magari con un semplice «riassunto logico», l’andamento rapsodico del pensiero di Gadda, e a intendere le molteplici allusioni. Come, per fare il solo esempio di Psicanalisi e letteratura, l’allusione all’«illustre filologo oggi dolorosamente mancato alla filologia e alla patria» recensore di un «manualetto di psicanalisi» (= Weiss) nelle «colonne d‘un autorevole e diffuso quotidiano» (Ettore Romagnoli, sospetto, probabilmente nell’«Ambrosiano» dei primi anni trenta).

E della stessa origine di Psicanalisi e letteratura in quanto conferenza pubblica al «Lauro» del fiorentino Hôtel Baglioni, secondo la postilla di Gadda citata nella n. 44, si vorrebbe sapere di più. Altri lettori gradirebbero trovare, se non reintegrate (lo vieta Madonna Philològia), almeno disponibili a piè di pagina (del testo) alcune delle lezioni, a volte sostanziali – ora riportate e discusse all’interno delle schede – che nel timore di ferire congiunti conoscenti lettori il mondo intero, l’autore aveva pervicacemente voluto, come nella Cognizione, attenuare o eliminare.

Così, ad esempio, tornando in fine al bistrattato cognato Ambrosi (il quale, «con baffi, per quanto opportunamente cimati» e fumatore di germaniche Turmac, è a mio avviso il modello dei «manichini ossobuchivori» della Cognizione), il passo di Come lavoro sulla morte del figlioletto «d’otto anni» del «gentiluomo campagnardo».

Nella redazione originaria di «Paragone», uscita come opportunamente rileva Mariarosa Bricchi a pochi mesi dalla morte dell’Ambrosi, Gadda inveiva senza mezzi termini contro la «clinica della città natale» del cognato (Verona), «il modello delle cliniche»: «Era una topaia, per non dire un troiaio: due gradi sotto zero, fumo, sporcizia». Vi era morta «d’otto giorni», il 3 gennaio del ‘31, la figliolina Lidia. Una ulteriore morte, una ulteriore non piccola tragedia familiare per lo stesso Gadda, oltre che per la sorella Clara e consorte, che bene avrebbe figurato ad aprire I viaggi la morte.