La notte del 10 novembre ci ha lasciato, a 82 anni, il poeta Carlo Bordini. L’ho conosciuto alla fine degli anni Sessanta, quando infuriava la scuola romana di poesia e il Sessantotto. Carlo allora lavorava come ricercatore al Dipartimento di studi storici della Sapienza. Lo incontravo al Politecnico, insieme a un gruppo di femministe quali Cristina Bonagura, la figlia dell’autore di tante belle canzoni come Scalinatella e Marina Tornaghi, la traduttrice di Oronooko, un romanzo di Aphra Behn, dove compare per la prima volta un schiavo nero del Seicento.

PROPRIO IN QUEL TEATRO organizzammo sedute di «poeti nel Movimento», quando i sessantottini erano entrati in crisi. Erano serate affollate e divertenti. Un militante, una volta, gridò: «Le mie poesie sono brutte, compagni, embè?». Nel 1975, Carlo pubblicò a sue spese Strana categoria che feci leggere a Enzo Siciliano, il quale ne parlò con stupore, pensando che fosse un ragazzo di strada, mentre aveva quasi la sua stessa età.
Amava anche organizzare feste nella tenuta di suo padre a Narni, a base di vino e balli all’aperto. Era generoso e sornione, e tessitore di vere amicizie amorose, come la nostra. Bisognava rispondere a quelle feste, aprendo casa, per capodanni affollati di poeti come Amelia Rosselli, Valerio Magrelli, Dario Bellezza e Tommaso Di Francesco.
Partecipò all’antologia Dal fondo (1978) allestita insieme a Antonio Veneziani – che curai e io stesso seguii la stampa del suo libro più importante, che resta un capolavoro: Strategia (1981). Per i rapporti umani e affettuosi, era ogni volta come se combattesse su un ring, con i guantoni della sua poesia. Sono da ricordare, per l’innovazione del linguaggio, almeno Polvere (1999), Sasso (2008) e I costruttori dei vulcani del 2010. Carlo Bordini scriveva anche in prosa, tra cui Manuale di autodistruzione, il romanzo Gustavo e Memorie di un rivoluzionario timido. Organizzò con Andrea Di Consoli un’antologia di memoir di scrittori romani prima della morte di Moro, intitolata: Renault 4.

L’ULTIMA VOLTA l’ho rivisto nel Roman poetry festival, insieme a Scartaghiande, Di Francesco, Veneziani e la nuova scuola romana di poesia, tra cui lo scomparso Galloni. Era al solito, sornione e amicale quanto imprevedibile e profondo. In una «ultima cena» insieme parlammo della nostra amica del cuore, Amelia Rosselli e di quando ci cercava la Digos per aver pubblicato sulla proibita rivista I volsci brevi poesie.
Nel Sessantotto lui sfilava dietro le bandiere dei troskisti come Flores d’Arcais, che aveva esordito in una affollata e affumicata assemblea di Lettere contro l’Unione sovietica. Noi eravamo molto interessati a quelli del Manifesto.
Eravamo dunque di «fé diversa», ma come cavalieri antiqui, smettendo a lotta, andavamo per pizzerie periferiche parlando di poesia: così eravamo davvero solidali. Poesia del Movimento arrivò a due numeri. Nelle riunioni del Politecnico era sceso anche Milo De Angelis, giovanissimo, che in quell’occasione conobbe Giovanna Sicari. Quella fu la nostra bohème, delusissimi dalla piega brigatista del Movimento.
Ci fu un periodo in cui Carlo frequentava il Beat 72 dove il nostro Simone Carella organizzava i festival internazionali di poeti come Castelporziano e, in precedenza, le serate del 1977, quelle che Franco Cordelli raccontò in un suo libro: Il poeta postumo. Era un libertino Carlo? Non del tutto.

LI AVEVA STUDIATI i libertini francesi del Seicento. Era alla fine, come dimostrano i suoi versi intensi, un «male-amato» come il nostro Apollinaire non a caso suo punto di riferimento. Restava sempre ferito dai rapporti affettivi, ipercritico e sprezzante del ruolo maschile – «le donne… zac ai miei piedi», recita un suo famoso verso – ne parlava come di gigantesse baudelairiane, di cui schivare i micidiali colpi sul ring dell’amore.
Erano questi conflitti all’origine della sua poesia rigorosamente colloquiale e in prosa – con lui il linguaggio quotidiano entra di diritto nella versificazione, stravolgendone le regole – quella che piaceva al suo critico di riferimento Alfonso Berardinelli, che di lui ha scritto: «Bordini… tiene conto della lunga storia di autopolverizzazione dell’arte che ha attraversato il Novecento… Oltre che di un ritorno a Gozzano si potrebbe parlare di un ritorno a Apollinaire». Carlo però è riuscito a farsi amare sia da Berardinelli che, poi, da Cortellessa. Ha riunito nelle sue poesie, insomma, quello che è rimasto della critica dell’avanguardia e la critica ferocemente avversa al Gruppo ’63.