Commemorando la figura di Carlo Antoni (1896-1959) alla Sapienza, il 2 maggio 1960, Guido Calogero a proposito di Chiose all’estetica (con le pagine di Gratitudine ultima fatica di Antoni) il volumetto predisposto per la stampa e che uscirà postumo e per sua cura nel novembre di quell’anno, diceva che l’autore «aveva voluto modestamente intitolarlo Chiose all’estetica: dove ‘estetica’ sembra voler essere, insieme, il nome generale della scienza dell’arte e il titolo dell’opera di Croce, della quale Antoni amava considerarsi semplice glossatore, nello stesso tempo che la sottoponeva a penetranti correzioni critiche».

È opportuno tenere in adeguato conto la maniera chiosastica che Antoni adotta per calarsi nell’approfondimento della ricerca estetica crociana. Egli, infatti, mostra di intendere la chiosa come la forma esegetica più appropriata quando l’intento critico sia quello di ragionare una filosofia dall’interno, attenendosi ai margini segnati dalla coerenza della sua elaborazione, per sottoporre ad una accurata disamina i vincoli ed i collegamenti che ne fanno il costrutto. La chiosa si rivela, allora, lo strumento di verifica più sicuro quando si intenda vagliare la conformità delle connessioni che consentono la tenuta di una affermazione teorica. Ma, al contempo, è proprio la notazione accurata, la glossa che aderisce intimamente alla frase del testo, a permettere di saggiare, su questioni determinate e circoscritte, la cogenza dei raggiungimenti e degli esiti complessivi conseguiti. Esiti che si mostrano, se del caso, tanto consistenti quanto più si prestano ad essere controllati, messi alla prova dalla minuziosa precisione critica della chiosa.

Solo per un aspetto, infatti, la chiosa tiene della nota a margine stilata come chiarimento, come delucidazione. Per altro verso essa non è illustrazione, ma termine di confronto, paragone. È la forma adeguata all’indagine che si propone di valutare la caratura d’una asserzione senza estrarla dal testo, anzi, mantenendola in contatto con il flusso di energia che scaturisce dalle sue interne dinamiche. Per tale via, d’ogni asserto, secondo i suoi propri principi, la chiosa legittima volta a volta (o interdice) la fondatezza, misura le conseguenze, prospetta le derivazioni ultime.
Accade così che la chiosa sia rivolta da Antoni al particolare significativo, al costrutto teorico compiutamente formulato, alla definizione di un termine o di un concetto, ma ciò avviene solo allorquando il punto di applicazione sia stato identificato e trascelto. Selezione e individuazione che prendono le mosse e traggono forza dall’integrale, compiuto possesso dei significati della ricerca nel suo insieme.

Anche per questi motivi il metodo perseguito da Antoni nelle Chiose all’estetica è, più che attestazione di un suo consenso sui principi di Croce, l’autonoma assunzione critica del portato di quei principi, il criterio con che egli svolge il compito costante di valutare, di quei presupposti, di quei principi, le acquisizioni che possano dirsi stabili sulla base di risultati accertati.
Nella Prefazione al Commento a Croce, che Antoni licenzia nel 1955 per i tipi del colto editore veneziano Neri Pozza, si legge: «Da tempo mi proponevo di raccogliere in un volume i saggi e gli articoli, che da una decina d’anni ero andato pubblicando e che avevano attinenza più o meno diretta col pensiero di Croce. In quegli scritti non mi ero limitato ad una pedissequa esposizione della filosofia crociana, ma ‘da scolaro non inerte’, avevo dato a qualche elemento di essa un ulteriore svolgimento».

Ordinare allora nella «coerente unità» del commento (e in tutt’altre vesti che quelle indossate da «un semplice glossatore», come bene ha visto Calogero), quell’insito ulteriore svolgimento che accresce la dominanza d’una filosofia attestandosi sui suoi versanti problematici, guisa questa la più consona (anzi: unica maniera adeguata) all’istanza speculativa del pensiero.
Del resto, secondo Antoni, il lascito di Croce consiste, prima di tutto, in una «educazione alla responsabilità che nel filosofo si connette al dovere della libertà di giudizio».