Primi anni Ottanta. Un corridoio stretto e buio al secondo piano del palazzo della Rai di Viale Mazzini, a Roma. In fondo alla sfilata di uffici tutti uguali ce n’è uno diverso dagli altri. Da dietro quella porta, infatti, proviene debole, ma distinto, il suono di un pianoforte. Un suono anomalo, fuori posto, come quello di una colonna sonora sbagliata. La porta si apre. Seduto a un pianoforte verticale un po’ scordato, c’è un uomo che si intuisce piccolo di statura. Sta suonando, con una certa grazia, senza alcun spartito sul leggio, le prime misure di una Sonata di Beethoven, «La Tempesta».

E mentre le dita si muovono con sicurezza sulla tastiera l’uomo, con una voce viva, sonora, ridente dice: «Come si fa a dire che questo è il primo tema? E questo, allora, sarebbe il secondo? Ma qui ce n’è anche un terzo, allora. E dove comincerebbe lo sviluppo? Qui? Oppure qui? Vedi Paolo – aggiunge rivolgendosi al suo compagno di stanza – questa è la prova definitiva che la forma sonata non esiste». L’uomo è Giovanni Carli Ballola, in una scena di vita vera, tanti anni fa… Quella vita terrena che per lui, uomo di fede, si è conclusa il 18 ottobre del 2023. Difficile, impossibile, definirlo con una sola parola: musicologo, storico della musica, musicografo, critico, compositore, revisore, librettista.

In realtà Giuanìn – come veniva chiamato affettuosamente tra i suoi amici – ha compiuto il miracolo, durante i suoi 91 anni di esistenza, di riunire in un unico alveo dei saperi pratiche e professioni che di solito vivono divise e separate. Con un filo, però, a legarle: il rifiuto dei luoghi comuni della storiografia, il rigetto delle convenzioni, l’avversione per le semplificazioni. Carli Ballola – nei colloqui privati – si diceva erede di quella piccola nobiltà milanese di fine Ottocento che in dissidio con la fazione più conservatrice e reazionaria della nobiltà, si era schierata, a favore del progresso, della industrializzazione, del giusto equilibrio tra le classi.

Da questa eredità – sosteneva – derivava il suo «progressismo liberale», che negli anni lo aveva portato, senza alcun contrasto con il suo convinto «cattolicesimo sociale», a condividere gli ideali di giustizia, di libertà, di solidarietà professati dalla massoneria storica, italiana e viennese. Inevitabile, dunque, che le sue prime passioni musicali si dirigessero verso due compositori che in quegli ideali si erano riconosciuti e in quella cultura si erano forgiati come lame al fuoco: Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven.

Non a caso i suoi studi più originali, accanto ai due volumi più recenti dedicati a Cherubini e Rossini, sono due monografie che ancora oggi restano un punto di riferimento imprescindibile per studenti, docenti, ricercatori e musicologi: Beethoven, pubblicato per la prima volta nel 1967, e Mozart, scritto insieme a Roberto Parenti, la cui prima edizione risale al 1990. A proposito di Beethoven, ad esempio, Carli Ballola rifiuta recisamente la vetusta «teoria dei tre stili» e introduce la novità critica dei «tre stili e mezzo», laddove il «mezzo» è rappresentato dall’elemento pervasivo del canto.

Di Mozart, invece, contesta l’immagine dell’eterno fanciullo candido e ribelle attribuendogli la statura dell’«intellettuale» colto e avveduto, intriso di cultura massonica: tesi che allora venne molto contestata dall’Accademia. Ma il tratto che forse distingue più degli altri Carli Ballola dalla musicologia corrente è la sua identità di sublime musicografo: un’attitudine che lo lega ai più raffinati «scrittori di musica» del passato recente: Giorgio Vigolo, Alberto Savino, Fedele D’Amico. Come altro si può definire, infatti, uno studioso capace di tradurre un pensiero critico con queste parole, abbaglianti e precise: «Insieme, variazione e polifonia concorrono, come principi determinanti, a sollevare la musica dell’ultimo Beethoven dalla sfera del pathos e della conflittualità a quella empirea della astrazione contemplativa, del gioco schilleriano e del “dolce canto di riposo e di pace”».