Una grande mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma (fino al 9 giugno) e un corposo catalogo edito da Quodlibet (pp. 712, euro 45,00) ricordano il centenario della nascita di Carla Accardi (Trapani, 8 ottobre 1924) e il decennale della sua scomparsa (Roma, 23 febbraio 2014).

A cura di Daniela Lancioni e Paola Bonani, la mostra – realizzata con la collaborazione dell’Archivio Accardi Sanfilippo e il sostegno della Fondazione Silvano Toti – presenta opere datate 1942-2014, mettendo subito a confronto due autoritratti, il primo, a matita e carboncino, del 1942, il secondo, olio su tela, della fine del 1946. Un modo, inusuale, di evidenziare il passaggio dalla predisposizione alla consapevolezza di essere un artista, affrontando una visione frontale di se stessa ma conservando quello sguardo in tralice e un sorriso appena accennato dei quali Carla non si è mai liberata, anche nei momenti più duri della sua esistenza, quando sentirsi protagonisti voleva dire aver procurato dolore, convinti che «la vita è troppo breve per l’eternità dei sentimenti».

E questo, prima della partenza per Firenze, della sistemazione a Roma e del viaggio a Parigi, dove arrivò nel lontano Natale 1946 insieme a Turcato, Consagra, Maugeri, Attardi e Sanfilippo, incontrò in place Vendôme Michel Tapié, attraversò il Musée de l’Homme ed ebbe il determinante impatto con la scultura africana, che le aprì gli occhi sul modo di rappresentare con le forme piuttosto che con il colore.

Questa lunga fedeltà a Parigi, che ebbe il suo primo riconoscimento proprio da Tapié, nel 1955 alla Galerie Rive Droite, nella mostra Individualités d’aujourd’hui II – cui seguì, dieci anni dopo, la personale alla Galerie Stadler, culminando, nel 2002 (registi Laurence Bossé e Hans Ulrich Obrist), nella celebrazione al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris – ha segnato l’esistenza di Carla, maturata la sua indipendenza, resa evidente la sua disinvoltura operativa appresa dalla pennellata, a grossi segni e macchie, di Hartung nello studio di Arcuil, dalla scoperta della pittura di quegli anni, da Wols a Fautrier, a Dubuffet e, in seguito, dalle affinità con pionieri quali Serpan e Tanaka.

Tutte queste relazioni, che l’avevano aiutata a sfuggire a quanto c’era di facile e ripetitivo nell’informale dell’epoca come nel segno dalla spontaneità automatica (un critico acuto come Alfredo Mezio già nel 1950 l’attribuiva alla sua provenienza dalla «zona fenicia di quel mare pieno di miraggi archeologici»), allo stesso «intreccio di curve o di elementi circolari incastrati gli uni negli altri in una linea ondeggiante e sinuosa» che poteva avvolgerla come una rete inestricabile (Grande integrazione, 1958), mezzo secolo dopo, ribaltate per legge generazionale, ne hanno fatto una figura di referenza per molti giovani artisti, non solo italiani, prime fra tutte Paola Pivi e Grazia Toderi che nella «Dame de cour» hanno trovato l’infinita libertà, quel suo collocare a uguale distanza l’arte e la vita, sempre contemporanea al suo tempo, ovvero al nostro sentimento della realtà, senza tagliare, attraverso le immagini che sfruttano anche elementi di ordine scientifico, il contatto con la gente, attenta a perseguire ogni opportunità di porsi in relazione con la pittura.

Naturalmente, non era l’ideologia a sollecitare il lavoro, ma un avvicinamento progressivo alla possibilità di togliere «una paralizzante misteriosità intorno all’arte per mantenerle un mistero», che, da allora, ha sempre mosso la mano di Carla Accardi, ben conscia di doverlo chiarire proprio attraverso l’Ambiente arancio del 1966-’68 (ora al Musée d’Art Moderne et Contemporain di Strasburgo), i Rotoli del 1966-’71 e Nero giallo del 1967 (Museo di Rivoli), la Triplice tenda del 1969-’71 (Centre Pompidou di Parigi), A Gent abbiamo aperto una finestra del 1971-’86 (Stedelijk Museum vor Actuele Kunst di Gent), Dimenticare mettersi in salvo del 1978: una serie di opere su sicofoil, quindi trasparenti, del 1965-’86, dove il segno, sottraendosi alle strutture canoniche ma non immemore delle disinvolte semplificazioni di Matisse, si deterge e si estenua passando dal nero al bianco al colore abbagliante che scioglie la struttura e accresce l’ambiguità facendosi sentimento del tempo o, come scrive la stessa Accardi, «impulso vitale che è nel mondo».

Sembrava un’avventura (basta soffermarsi davanti a Tre triangoli del 1972, a Quadrato a spina del 1979 o a Ottagono verdearancio del 1980), al contrario era un improvviso e istintivo azzeramento culturale per l’ansia di un linguaggio nuovo – aperto e sviluppabile, lo chiamava Tapié – che partisse da un rigoroso vocabolo di base, tracciato per terra su un materiale monocromo, da un segno primario integrato con altri segni, per stendere un alfabeto che le corrispondesse: arioso, energico, vitale, cosmico, antieloquente, in costante crescita dell’immagine visiva nel filo diretto mente-braccio, nella sperimentazione, dunque, di ogni potenziale ambiguità e comprensività del linguaggio tipiche, in quegli anni, nel versante verbale, dei Novissimi, Giuliani e Pagliarani in testa.

In questo senso, la magia strutturale della Tenda del 1965-’66, nata per rendere l’emozione provata davanti al Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna e sperimentando una semplice estensione della pittura, costruita in modo che i segni rossi e verdi di Seconda stella e Moltiplicazione verdeargento (1964), in doppio foglio, ripetuti e fecondati dalla luce, avvolgessero chi entrava nell’abitacolo o ne percorreva l’interno e al tempo stesso galleggiasse nello spazio, irrompeva nella contemporaneità riproponendo l’attualità di Balla maestro dell’Astrattismo, conferendo a una famiglia di segni-pensiero una forma plastica originale, compiuta, e quella leggerezza fuori dalle mitologie che l’ha accompagnata, dal 1986, tornata ormai «a fare dei quadri» su tela grezza, fino all’ultimo istante, convinta che l’arte non può cambiare il mondo ma può mutare la coscienza di uomini e donne che potrebbero cambiarlo.

Ancora una volta, il suo è stato un atto di grande coraggio, capace di rimettere in gioco tutte le esperienze precedenti, compreso l’interesse per l’architettura che occupò i pensieri di Consagra, Perilli e dello stesso Sanfilippo. Si dividono invano, lo smalto su legno del 2006, rammemora la Parete a Tangeri del 1972 e ne chiarisce i problemi rendendo plastico il segno che, abbandonata la trasparenza per l’opacità, ancora una volta si sottrae alla maniera lasciando campo aperto alla tela o saturandola di onde cromatiche (Ordine inverso e Imbucare i misteri, del 2014), alla costante ricerca di ogni possibile soluzione, prima fra tutte quella di partire dal sogno di un’isola lontana e sapere che è un sogno di gioia.

Giuseppe Appella

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Trasparente, femminista: una mostra di fedeltà, filologica e sentimentale

di Laura Iamurri

La mostra che Palazzo delle Esposizioni dedica a Carla Accardi nel centenario della nascita è magnifica. C’è tutta la felicità della pittura di un’artista straordinaria che ha attraversato la storia dell’arte dal dopoguerra ai primi tre lustri del XXI secolo con radicalità e coerenza, riassunta in un centinaio di opere tra le più belle e importanti della sua intera produzione. «Perché i suoi quadri ci comunicano una felicità immediata e permanente?», si chiedeva Corrado Levi nel 1983, e la domanda torna in mente girando nelle sale.

Carla Accardi nel 1979, foto S. Toni

Le curatrici Daniela Lancioni e Paola Bonani hanno scelto di allestire la mostra in ordine cronologico, accompagnando così il pubblico in un percorso di esplorazione e scoperta che segue quello compiuto dalla stessa Accardi. Questo ordine prevede due sole eccezioni: la prima è la Triplice tenda, magica e ieratica al centro della rotonda (la si vede appena si entra nel Palazzo da via Nazionale, ed è una sorpresa rinnovata ogni volta); l’altra è la sala nella quale convivono con eleganza opere di periodi diversi, quadri, fregi murali e installazioni ambientali. Ma la mostra è piena di sorprese, a partire dalla prima sala, nella quale sono state riunite – con gli autoritratti dipinti da giovanissima, le nature morte figurative e gli esperimenti astratti – le opere della collezione di Accardi: frutto di doni e scambi con artiste e artisti quasi sempre più giovani, la piccola raccolta testimonia sia di una rete di relazioni tessuta con costanza e con curiosità, sia del desiderio di confrontarsi continuamente con le generazioni nuove. Vale la pena di sottolineare la cura con cui, grazie anche alla collaborazione con l’Archivio Accardi Sanfilippo, sono state redatte le notizie della vita dell’artista leggibili sulla parete sinistra della sala, inframmezzata da fotografie e testi capitali come il Manifesto di Rivolta Femminile.

La biografia rende infatti conto delle vicende esistenziali, della carriera artistica e di quel modo precipuo di essere un’artista intensamente politica che Accardi ha praticato per tutta la sua vita, dall’iscrizione al Pci nel 1947 alla fondazione con Carla Lonzi e Elvira Banotti di uno dei primi e più radicali movimenti del femminismo italiano (Rivolta Femminile, per l’appunto) nel 1970 e, con altre donne, della Cooperativa Beato Angelico alla metà del decennio.

Nel succedersi dei grandi ambienti del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni le opere, in una sequenza magistrale, prendono respiro. Dopo gli esordi astratti con il gruppo Forma, la seconda sala è dedicata agli anni cinquanta, alla esplorazione sperimentale della superficie del quadro che abolisce il colore per concentrarsi sulla tensione segnica, nero su bianco e poi bianco su nero, per esplicitare il carattere integralmente pittorico del segno. I primi riquadri con il rosso annunciano la crisi della bicromia assoluta, e preludono al ritorno del colore negli anni sessanta.

L’austerità cromatica delle Integrazioni è infatti cancellata dalla festosa esplosione cromatica della sala successiva, dove lo sguardo è attratto irresistibilmente dalle plastiche al centro della sala: i Rotoli e i Coni, e la Tenda, la prima scultura abitabile dell’arte italiana, realizzata interamente con fogli di sicofoil dipinti a mano, perché Accardi in quel momento non rinuncia alla pittura neanche quando le opere assumono una tridimensionalità che le colloca nello spazio come sculture autoportanti.

Il tripudio di colori artificiali prosegue sulle pareti con quadri come Rossoverde e Verderosso, Violarosso e II Stella, nei quali Accardi sperimenta accostamenti cromatici corrispondenti alle sollecitazioni della visualità urbana contemporanea. Sono queste le opere che punteggiano il dialogo con Carla Lonzi le cui tracce si ritrovano nel libro Autoritratto (1969). Alla fine del decennio, la lunga fase di progettazione e realizzazione della Triplice tenda accompagna la fondazione e le prime attività di Rivolta Femminile, come una labirintica dimora capace di evocare un altrove fantastico e nomadico.

Altri sviluppi tridimensionali della pittura su supporto trasparente (Cilindrocono e Casalabirinto) si ritrovano nella quarta sala insieme, come si è accennato, a ulteriori intuizioni spaziali (A Gand abbiamo aperto una finestra), a una inedita tensione al fregio murale (Si dividono invano) e a un grande quadro bello e memorabile, Moltiplicazione verdeargento, esposto alla Quadriennale del 1965 insieme ai primi Rotoli.

Nelle ultime tre sale torna una scansione temporale, a cominciare dalla ricostruzione perfetta di Origine, l’installazione realizzata per la personale alla Cooperativa Beato Angelico nel 1976, che introduce a serie diverse di opere straordinarie, dagli intrecci di sicofoil dipinto sulla parete di sinistra ai Trasparenti della parete di fondo, che coincidono cronologicamente con gli anni del più intenso impegno femminista, fino al ritorno alla pittura delocalizzata sul telaio nei triangoli e nei rettangoli della fine del decennio che sanciscono l’allontanamento dall’impegno politico.

Ancora la cura filologica dell’allestimento rivela il suo potenziale creativo nella penultima sala, nella quale sono esposti i dipinti degli anni ottanta, a ricostruire la sala personale di Accardi alla Biennale di Venezia del 1988: quadri grandi, realizzati per lo più su tela grezza, stupefacenti per l’intensità del colore e per le infinite declinazioni di segni allo stesso tempo tipici e sempre rinnovati, riconoscibili e inediti.

E infine, a testimonianza di una creatività inesauribile e di una mano straordinariamente ferma nonostante il passare degli anni, una selezione di opere degli anni novanta e duemila chiude questo percorso magnifico che solo i manuali di storia dell’arte si ostinano a ignorare. Una più ampia considerazione meriterebbe il catalogo, che insieme agli ottimi saggi delle curatrici contiene una preziosa antologia critica illustrata con le fotografie degli allestimenti storici.