Con una battuta un po’ corriva si potrebbe dire che Carl Schmitt rischia di fare la fine di Michel Foucault: strapazzato tra la Scilla dei paludamenti filologici e la Cariddi degli abusi prêt-à-porter. Proprio come per l’uno così per l’altro la pandemia è stata l’occasione di tornare a calcare la ribalta della conversazione accademico-politica e di vedersi una volta di più ridotti alla misura di una formula il cui potere è ormai senz’altro più incantatorio che euristico (la «biopolitica» per l’uno, lo «stato di eccezione» per l’altro).

NON SONO MANCATI in questi mesi gli accesi dibattiti su ciò che giuridicamente distingue un’emergenza da un’eccezione, né le ricorrenti confusioni su quale sia la preposizione che regge il famigerato oracolo schmittiano: se il sovrano sia cioè colui che decide nello (come spesso si legge) oppure sullo (come scrive Schmitt) stato d’eccezione.

Non sarebbe l’ultima delle virtù del recente volume che Mariano Croce e Andrea Salvatore hanno deciso di dedicare al giurista e filosofo tedesco (L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione, Quodlibet, pp. 176, euro 16) quella di sospendere l’ovvietà dell’appaiamento tra la sua figura e quella del dispositivo dello «stato d’eccezione». Ma il divorzio tra l’autore e la sua presunta pièce de résistance non obbedisce fortunatamente al fastidio o alla civetteria che, per amore della trovata, comanderebbe di sostituire un ritornello con un altro. L’operazione è assai più sofisticata.

D’altro canto la frequentazione dei due studiosi con l’opera di Schmitt è tutt’altro che episodica. Questa recente indagine è infatti l’esito compiuto di un’assidua e prolungata perlustrazione del testo schmittiano e di una messa a punto di una ipotesi che si direbbe «revisionista» che aveva trovato la sua prima versione in un libro, uscito in inglese nel 2013, in cui si cominciava a profilare un «altro» Schmitt.

NE «L’INDECISIONISTA» l’ipotesi diventa una tesi e viene doviziosamente illustrata in un libro che mimando un «processo» raccoglie allegazioni e prove, interroga e ascolta testimoni, redige più d’una versione dei fatti, fino a chiudere le indagini senza tuttavia emettere una sentenza. Il capo di imputazione che grava su Schmitt non è tuttavia quello più prevedibile e anch’esso ormai capace di irrigare una fertile messe di più e meno sorvegliate pubblicazioni. L’indecisionista non organizza quindi una Norimberga da camera in cui, una volta di più, si tratterebbe di capire fino a che punto le teorie di Schmitt sarebbero ora drasticamente pregiudicate ora soltanto «intaccate» dalla sua convinta adesione al nazionalsocialismo.

Gli autori non battono questa via non già perché liquidino l’affare ma perché lo risolvono prima ancora di cominciare: assumendo l’incontrovertibile dato storico aldilà di ogni gesuitico compromesso e oltre ogni tentazione di rampogna retroattiva. Almeno su questo punto il giudizio è senza appello.

Ma, si direbbe, qui viene il bello. Perché Croce e Salvatore propugnano una vera e propria «rilettura» dell’opera schmittiana e lo fanno con argomenti studiati e persuasivi. Il nocciolo della tesi è presto detto: a fronte di un’enfasi esegetica tutta concentrata su un esiguo arco cronologico – coincidente in buona misura con gli anni Venti e esibito nella sua forma eminente in Teologia politica (1922) – che ha insistito (talvolta perfino contro la lettera del testo) su un’identificazione inderogabile di Schmitt col teorico dell’eccezione come marca specifica della sovranità, gli autori non si limitano a opporre una tesi «deflazionista». Attraverso una doppia operazione di rivalorizzazione degli scritti degli anni Trenta e di revisione del famigerato «criterio del politico», è lo stesso baricentro della vicenda speculativa schmittiana a spostarsi: all’eccezionalismo si accompagna, senza perciò cancellarlo, l’istituzionalismo.

Per dirla sinteticamente: all’immagine di un sovrano totipotente il cui potere è risolto nella decisione su un caso eccezionale si affianca quella di un ordinamento il cui obiettivo è nient’altro che la propria ordinata riproduzione. Contro l’idea che l’esercizio del potere coincida da parte a parte con la tragica, perché infondata, ingiustificabile e indeducibile decisione in situazione d’emergenza sta quindi la ben più economica, efficiente e ragionata produzione e riproduzione della situazione normale. Che Schmitt abbia interpretato questo suo istituzionalismo in una variante «concretista» in cui l’ordine è riempito dall’omogeneità di una sostanza o di un’essenza (razza compresa) non sfugge agli autori.

Ma se uno Schmitt indecisionista non è meno politicamente esecrabile di uno decisionista è altrettanto vero che solo il primo sembra ancora in grado offrire intuizioni «decisive» per capire qualcosa di più sul funzionamento e la manutenzione giuridica di quel sofisticato marchingegno che chiamiamo «politica».