Ho cominciato ad occuparmi di disuguaglianze in adolescenza (1967-68), come è capitato a molti della mia generazione. Poi, forse stranamente per qualcuno, ho ripreso l’attenzione alle disuguaglianze quando ho iniziato a lavorare in Banca d’Italia occupandomi della sostenibilità delle piccole-medie imprese perché, in un Paese come il nostro e per un lungo periodo, il sistema delle piccole-medie imprese ha svolto un ruolo fondamentale di pre-distributore della ricchezza.

Col passaggio al Ministero dell’Economia, poi, la riduzione delle disuguaglianze territoriali è diventato il mio lavoro e con l’avventura in Europa con la Commissaria Danuta Hubner nel 2008 anche l’occasione di incontro con una straordinaria rete di pensatori e di amministratori impegnati su questo fronte.

Successivamente, quando ho anticipatamente lasciato la Pubblica Amministrazione, mi sono ritrovato con organizzazioni di cittadinanza, con accademici e ricercatori che non avevano smesso di occuparsi di disuguaglianze nemmeno nei quarant’anni bui nei quali la parola era scomparsa dal vocabolario di molti. E capimmo che, se volevamo fare la differenza, dovevamo lavorare insieme.

L’ottica ecosistemica è entrata come sensibilità del mio vivere molto presto: mi è sempre piaciuto stare in contatto e camminare nella natura sentendomi in armonia in mezzo a un bosco, in un prato, su un crinale di montagna e anche dentro a un temporale improvviso. Però, con sincerità vi dico che questo è diventato impegno collettivo dopo molto tempo: non capii da subito che tutto quello lo stavamo mettendo a repentaglio, anche con cose su cui magari lavoravo anch’io.

Questa consapevolezza è venuta verso fine 2011 ed è esplosa con il mio impegno sulle strategie per le aree interne del Paese, mentre ero ministro della Repubblica. Lì ho avvertito che questa straordinaria biodiversità in cui stiamo, questa voglia di stare in armonia nell’ecosistema, richiedevano politiche precise e mirate.

Se definiamo la «giustizia sociale» come la capacità delle persone di vivere la vita che è nelle loro corde viverei, allora un pezzo della nostra vita di persone è fare un buon lavoro, un pezzo è amare delle persone, essere curati quando ne abbiamo bisogno, apprendere, …e un pezzo della nostra vita è sentirci in armonia con la natura. La «giustizia ambientale» – così la chiamarono già negli anni ’60 proprio gli attivisti del movimento nero americano che si accorsero di come l’aspetto ambientale era dentro il sociale, essendo i neri del nord America costretti a vivere in aree degradate – non è dunque un’aggiunta ma una delle dimensioni umane costitutive.

Poi, oggi più che mai, appare evidente che sono i diseredati della terra, le persone che stanno nelle condizioni sociali peggiori a subire l’impatto più forte quando c’è un disastro ambientale, quando arriva un disastro climatico o un disastro pandemico, il quale a sua volta è collegato ad un uso improprio della natura.

C’è dunque anche una ragione molto pragmatica, ma importante, per evitare che l’attenzione all’ecosistema sia percepita come solo di chi se lo può permettere (le fasce di media e alta borghesia): è fondamentale per noi essere consapevoli che le persone in difficoltà e i vulnerabili sono i primi beneficiari di questa lotta. Però così non è stato nelle politiche: spesso si è data la sensazione che questa fosse una cosa per chi se lo poteva permettere, disgiungendo il sociale dall’ambientale.

Ma questa improvvisa attenzione alle tematiche ambientali che finalmente si è manifestata in modo deciso in Europa e adesso anche negli Stati Uniti, è vera o è finta? Da una parte è un po’ vera perché anche le classi dirigenti economiche e politiche hanno capito che quel modo di fare capitalismo è corrosivo dello stesso capitalismo che loro perseguono e dei loro stessi interessi. Se ne sono resi conto e per questo hanno costruito nuove misurazioni e nuove variabili… oggi addirittura l’acquisto di titoli è diventato un meccanismo sensibile alle implicazioni legate all’impatto ecosistemico. Ma, al tempo stesso, se non gli stiamo addosso diventa velocemente un impegno falso.

Il punto centrale è far pesare le aspirazioni e i saperi diffusi sulla costruzione degli indicatori con cui misurare quello che le «corporation» e i governi vogliono fare. Raccontare l’impatto delle scelte in modo congeniale a ciò che abbiamo deciso di voler raggiungere ambientalmente e socialmente.

Oggi, dunque, un processo in corso esiste, ma diventa vero solo se gli stiamo addosso… cioè se le organizzazioni di cittadinanza attiva, le imprese sociali, le organizzazioni del lavoro, i cittadini che si mobilitano esprimono il loro sapere e concorrono a stabilire gli standard senza lasciarli definire ai loro tecnici.

Ad esempio, nel Piano di Ripresa e Resilienza c’è pochissima attenzione alla biodiversità e questo è già rivelatore di un tipo di approccio. L’Italia è «il» Paese della biodiversità proprio in ragione della natura rugosa dei suoi territori, che consente la vicinanza di batterie di temperature e habitat straordinariamente differenti.

Questa mancanza della biodiversità nel Piano è un brutto segno: mostra che non abbiamo pensato davvero a un Piano che curi l’ecosistema italiano. Anche alcuni interventi di efficientamento energetico, tema centrale del Piano, non è vero che rispettano il coniugare sociale e ambientale: ad esempio, la misura del 110% è una misura che rischia di essere utilizzata soltanto da chi ha la capacità, il tempo e il denaro per capire se e come usarlo.

Così rischiamo di avere di nuovo una divisione tra le aree periferiche e socialmente deboli e le aree ricche. Non gli siamo stati addosso abbastanza.

Per farlo, da un lato ci vuole il sapere cosa vuol dire, in quel preciso territorio, occuparsi dell’ecosistema o sapere cosa esattamente vuol dire «economia circolare» in quel particolare contesto, … e dall’altro ci vuole la disponibilità ad impegnarsi con creatività, spendendo del tempo (remunerato o no). Questo offre al nostro Paese una carta fondamentale vista la forte diffusione della cittadinanza attiva.

Però la condizione perché questo matrimonio di sapere e di voler fare impatti e pesi a livello di sistema e non soltanto in singoli contesti, è che la Pubblica Amministrazione cambi il suo modo di rapportarsi a questo settore. Se esso continua a essere concepito come sostitutivo delle proprie attività e magari un modo per far fare delle cose con meno salari per chi lavora, cioè esternalizzando funzioni non come occasione per mettere in gioco nuovi saperi e creatività, questo patrimonio potrà cambiare la vita in alcuni luoghi qui e là, ma non penetrare nel sistema.

Abbiamo bisogno di un’Amministrazione Pubblica che non sia cieca ai luoghi, ma sensibile: si parte con degli indirizzi nazionali, ma che quando cascano in un determinato territorio vanno disegnati in maniera diversificata. E per farlo bisogna sentire persone e organizzazioni di cittadinanza attiva che, assieme alle organizzazioni del lavoro (le Camere del Lavoro, i sindacati territoriali, …), sono una fonte straordinaria di sapere e creatività. Se non attingi a quel serbatoio fai misure cieche ai luoghi, come è stato fatto per quarant’anni.

Il terzo settore se non sta sui territori maturando saperi e creatività, e senza cadere in comunitarismi chiusi, non serve a niente. Però se poi non hai la forza di pesare a livello nazionale, mettendo nei piani i chiodi giusti e levando quelli sbagliati, quei programmi non arriveranno mai a terra nel modo giusto.

Se, tornando all’esempio di prima, si propone una misura come il 110% che cade dall’alto in basso e non hai previsto nel Piano una squadra di assistenza che, nei diversi territori, accolga quella misura e la discuta con le organizzazioni di cittadinanza del luogo per capirne l’impatto, quell’incontro non accadrà mai. Questo è il rischio del Piano di Ripresa e Resilienza: l’assenza di chiodi che facilitino il coinvolgimento territoriale ed è lì che si gioca tutta la partita.

Per poter essere attivi localmente, come cittadini, organizzazioni e anche per gli amministratori, la prima cosa è che devo sapere quali sono le progettualità. Ci vuole un monitoraggio trasparente che consenta ai cittadini di sapere cosa sta arrivando nel contesto dove vivono (cosa si apprestano a fare e dove? Ad esempio, quanti asili e con quale tipo di cibi per i bambini? …). Il secondo passo fondamentale è chiedere e pretendere di essere ascoltati, cioè di coprogettare. L’amministratore pubblico è scoraggiato, dal sistema che è esistito fino ad oggi, a colloquiare sia con le imprese private sia con le imprese sociali perché teme che un domani qualcuno possa dirgli che ha dialogato in maniera impropria.

Dobbiamo chiedere alla politica che dia un segnale chiaro verso la coprogettazione o, dove non si riesce a coprogettare, di fare i bandi partecipati già dalla fase di stesura coinvolgendo, nella trasparenza, tutti gli attori interessati.

Andare alle progettazioni con spirito aperto, senza voler stare al tavolo per accaparrarsi soldi per la propria filiera, mai da soli e mai cercando un rapporto separato per la singola organizzazione dovrebbe essere la filosofia delle imprese sociali preoccupate del bene comune territoriale. Gli incontri di partenariato (per imprese sociali o anche non sociali) non devono essere delle sceneggiate – come ho visto succedere – ma dei luoghi dove nasce un gioco cooperativo nel quale ciascuno porta i propri saperi consapevole che quello è l’unico momento e luogo dove poter influenzare, alla presenza di tutti gli altri soggetti coinvolti.

Finisco come ho cominciato: ai giovani mi vien sempre da dire «studiate, studiate, studiate». Abbiamo subito per quarant’anni una cultura egemone neoliberista che controllava e concentrava i saperi, indebolendo la democrazia e i luoghi di confronto pubblico.

Se ci sono disuguaglianze è perché ci sono disuguaglianze nell’accesso ai saperi. Si è enfatizzata quella che in democrazia viene chiamata la libertà di uscita (non ti piace l’ospedale pubblico, vai in quello privato; non ti piace l’Italia, te ne vai…) e si è ammazzata la libertà di voce. Questo è stato tollerato e culturalmente subito per un periodo lunghissimo.

C’è qualcosa che non va in noi: ci siamo un po’ convinti che non c’era alternativa. Oggi dobbiamo tornare a leggere testi che ci convincano che c’è alternativa perché la situazione in cui stiamo è frutto di scelte e non di fati inevitabili. Che la situazione in cui stiamo sia frutto di scelte è una notizia meravigliosa e a quel punto si trova il coraggio di cambiare (cfr. i primi tre capitoli di Un futuro più giusto). Cambiare il sistema è possibile e si deve farlo.

L’autore della lettera

Fabrizio Barca, statistico ed economista, è oggi coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità. È stato dirigente di ricerca in Banca d’Italia, responsabile delle previsioni macroeconomiche, di indagini sulle imprese e di progetti di studio sugli assetti proprietari delle imprese e Capo Dipartimento della politica pubblica per lo sviluppo nel Ministero Economia e Finanze. Come presidente del Comitato OCSE per le politiche territoriali e advisor della Commissione Europea, ha coordinato amministratori pubblici e studiosi nel disegno di un metodo nuovo di intervento per i territori in ritardo di sviluppo: il «place-based approach». Questa esperienza lo ha condotto a diventare Ministro per la Coesione territoriale nel Governo Monti di emergenza nazionale 2011-2013. Ha avanzato una proposta di riforma dell’organizzazione dei partiti: «Luoghi ideali». Ha insegnato in Università italiane e francesi ed è autore di molti saggi e volumi fra cui: Cambiare rotta. Più giustizia sociale per il rilancio dell’Italia, Laterza, 2019; Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale, (co-curato con Patrizia Luongo), Il Mulino, 2020.