Ormai cinque anni fa, con la riedizione di Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, la casa editrice Quodlibet ha inaugurato la più che meritoria impresa di ripubblicare, in ordine cronologico e per la cure attente di Monica Ferrando, le «Opere di Gianni Carchia». A quel libro del 1979 – ora aperto da una «Nota» di Ferrando (un vero profilo intellettuale, in luogo della prefazione firmata a suo tempo da Gianni Vattimo) e chiuso da uno scritto di Julien Coupat –, ha fatto seguito nel 2021 Estetica ed erotica. Saggio sull’immaginazione (1981, con testo di Paolo Vernaglione Berardi), dedicato a Kant, Fichte, Hegel ma anche a Dante, alla gnosi, a Plotino o al simbolismo orientale; e ora torna disponibile, con una bella postfazione di Gerardo Muñoz, anche il terzo dei titoli originariamente stampati dalla milanese Celuc, ovvero Dall’Apparenza al Mistero La nascita del romanzo (pp. 102, € 14,00), opera del 1983 che – con La favola dell’essere. Commento al Sofista (Quodlibet, 1997) e L’amore del pensiero (Quodlibet, 2000) – si pone sicuramente al vertice della produzione del filosofo scomparso nel 2000 a soli cinquantatré anni.
Filosofo, certo, voce fra le più importanti e originali della saggistica italiana del secondo Novecento, nonché finissimo traduttore – di Horkheimer e di Adorno (fece scalpore, nel 1976, la pubblicazione di Minima immoralia, gli aforismi «tralasciati» nell’edizione einudiana del ’54) nonché di Marx, Benjamin, Blumenberg, Apel, Gehlen, Odo Marquard e Reiner Schürmann –, politicamente vicino a Jacques Camatte e all’anarchismo di Piero Flecchia e Arturo Schwarz, vissuto Montepulciano e infine a Vetralla (mentre insegnava Estetica all’università di Roma Tre), Carchia aveva trascorso a Torino gli anni della formazione e del primo impegno per i «Quaderni rossi» di Renato Panzieri. Nella sua città si era laureato nel 1971, discutendo di fronte al giovane relatore Vattimo una tesi che, rielaborata, diventerà lo splendido Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin (Bulzoni 2000, poi Quodlibet 2010), e lì aveva anche frequentato – come già il precocissimo Furio Jesi – il pittore, filosofo e mitologo Albino Galvano, autore nel 1967 di Artemis Efesia. Il significato del politeismo greco (il primo degli eleganti «Fascicoli» Adelphi).
Cogliendo quindi nella vicinanza un po’ occasionale di questi ultimi nomi un felice suggerimento di Ferrando, potremmo osservare che Dall’Apparenza al Mistero affronta il problema estetico del mito, del suo tramonto e, al culmine del disincanto, dell’emergere dell’illusione romanzesca, secondo la più genuina e rigorosa disposizione benjaminiana alla «critica come salvazione». Certo è in un dialogo serrato con alcune delle ricerche fondamentali degli anni cinquanta, come Le système stoïcien et l’idée de temps di Victor Goldschmit, Forma ed evento di Carlo Diano o Mythe et allégorie di Jean Pépin, che Carchia mette innanzitutto a fuoco il costituirsi nei sistemi filosofici tardo-antichi di un esperienza ormai affrancata dal contrasto fra «mythos» e «logos», cioè di un’estetica dell’apparenza libera, «rimessa a se stessa», fatta solo di disincanto e ragione. Ora, essendo la definizione della disciplina semplicemente moderna, è solo «là dove immediatamente non sospetteremmo o non ci viene in mente di indagare» che potremmo rinvenire «il nucleo di una posizione che oggi definiremmo estetica». Se nei presocratici questa appare inseparabile dalla coscienza mitica, se in Platone l’arte si costituisce in seno all’erotica o in Aristotele quale teoria dell’agire, nel caso delle dottrine ellenistiche non si tratterà di identificare retrospettivamente delle tematiche affini, come la precettistica artistica: anche per comprendere lo statuto e il ruolo di queste ultime, occorrerà invece rivolgersi a quei sistemi esaminandone gli assunti fondamentali.
E il risultato di questa attitudine metodologica non sarà una ricostruzione teorica impostata su schemi cronologici ma un brillante affresco storico-spirituale, fatto di scorci a volo d’uccello e anche deliberatamente sincronici.
Carchia muove dal primo stoicismo, o meglio riconosce nella metafisica stoica dell’evento l’affermarsi iniziale dell’apparenza; esamina quindi nella sua radicalità la critica epicurea del mondo mitico, per offrire la lettura più penetrante di Lucrezio – dove «non è la scienza che si fa poesia, è la poesia che si fa scienza, per salvare il suo regno all’indomani del tramonto del mito» – e per mostrare nella satira oraziana l’espressione del fallimento dell’epicureismo e la «disgregazione satirica» di una forma classica che, ormai esausta, toccherà nell’Eneide il limite dell’auto-soppressione. Nel declinare non solo del mito ma della stessa dottrina, l’arte potrà infatti riferirsi solo al transeunte mondano, e giungerà così «fino alla ritrattazione suprema, fino al desiderio di Virgilio – sublimemente ricostruito da Hermann Broch nel suo romanzo – di distruggere l’intero poema, rifiutando di svendere l’eredità classica (…) sull’altare della caduca storia degli uomini e della loro potenza».
Ed è con queste parole che Carchia tocca la questione forse nodale del suo studio, quella del rapporto fra arte e violenza politica. Erede dell’«estetica» ellenistica, la romanità ne aveva tradotto lo spirito di pura riflessione in prassi, dando luogo a un’arte libera dal mito e sollevata dal compito della sua critica, ma perciò anche esposta allo sfruttamento da parte dell’ideologia imperiale. A Roma l’artista produceva immagini non più mitiche (benché mitologiche), e perciò in balia di forze estranee e dominanti. D’altro canto, osserva Carchia dando nuovo lustro all’espressione di Gottfried Benn, anche il «mondo dorico romano» veniva così compenetrato dall’influsso alessandrino, senza il quale non avrebbe conosciuto alcuna fioritura artistica e forse neanche sviluppato i suoi ordinamenti civili, cioè gli organi capaci di captare e trattenere la cruda manifestazione del potere.
Sull’ombreggiato paesaggio delle apparenze può allora librarsi, in conclusione della prima parte del libro e attraverso il confronto diretto con l’interpretazione hegeliana, la disamina dello scetticismo antico. Carchia coglie nella «scepsi» non solo il dissolversi comico della tragedia e la prima posizione della libera autocoscienza, ma soprattutto un’inedita possibilità di contemplazione: è per lo scettico, egli spiega, che l’immagine del mondo si offre finalmente come semplice, pura apparenza, «al di là del bene e del male, non meno che del vero e del falso».
Ed è rispetto a questa posizione cruciale e appena acquisita, che lo sguardo del filosofo può dal canto suo fissare, nel più forte contrasto, la natura e la funzione della forma romanzesca. Di questa, Reinhold Merkelbach aveva messo sì in luce lo sfondo misterico, senza tuttavia ammetterne il distacco dalla sfera del mito. Ben diversa è la prestazione offerta da Carchia nella seconda parte del saggio: egli certo non nega il legame con il sostrato misterico-cultuale, ma riconosce «al tempo stesso» la decisiva emancipazione dall’ambito della religiosità. Se nel romanzo non può dunque che esservi mistero è perché il mistero non è che una parodia del mito, e se vi è mito, è la simulazione del mito, l’uso intenzionale (il rimando è qui a Jesi e a Károly Kerényi) dello pseudos «tenuto a distanza e coscientemente manipolato».
Già una tale, aperta riconsiderazione del rapporto fra arte e potere svela allora il paradigma letterario dell’opera forgiata per le masse, nonché le «impressionanti» affinità della finzione misterica col dominio moderno della «libertà a comando, con l’evasione programmata dell’“industria culturale”». Come per Benjamin, un unico legame stringe cioè per Carchia – attraverso il barocco (o la secentesca rinascita del romanzo «in forme paradossalmente esasperate») – l’illusione artistica della tarda antichità ai sogni del capitalismo maturo. Ed è chiudendo questa sua opera maestra col più benjaminiano dei gesti che egli riconosce nelle Metamorfosi di Apuleio la funzione dialettica, di critica interna, della novella: specchio del romanzo incastonato nel romanzo è infatti la favola di Amore e Psiche, doppio nel quale la simulazione deve inevitabilmente riconoscersi e «la forma costitutivamente parodica celebra la sua stessa parodia».