Alla prova del coronavirus il carcere esplode. È già esploso e si contano i morti. Com’era prevedibile e come era stato previsto. Ora occorrono interventi urgenti da parte di governo e parlamento. Già si è perso troppo tempo e ulteriori attese sarebbero irresponsabili. Quella carceraria è una vera emergenza, ancor più di quella esterna. Per tutti.

Primo. Ci sono, nelle carceri italiane, 61.230 detenuti a fronte di 47.230 posti regolamentari (o 50.931, a seconda del sistema di calcolo). In questa situazione di sovraffollamento l’approdo del virus in uno o più istituti sarebbe devastante. Nell’immediato per i detenuti e, subito dopo, per l’esterno. Gli spazi ristretti, l’inevitabile promiscuità, l’impossibilità di misure precauzionali adeguate determinerebbero una diffusione esponenziale del contagio senza “vie di fuga”. I muri non sono una difesa né in entrata né in uscita. Il carcere non si può “sigillare”.

Le misure fino ad oggi adottate (sospensione dei colloqui, blocco dei permessi e, qua e là, interruzione del lavoro all’esterno e del regime di semilibertà) sono tanto punitive quanto insufficienti ché le vie del contagio – come stiamo imparando giorno dopo giorno – sono molte e imprevedibili. Provocano solo disagio, proteste e rivolte senza risolvere il problema.

Secondo. Un intervento immediato, oltre che necessario, è possibile. Si può agevolmente sospendere e differire con decreto legge (una volta tanto motivato da effettive ragioni di necessità e urgenza) l’esecuzione della pena per i condannati a pene inferiori a due o a tre anni (eventualmente con eccezioni per titoli di reato o recidiva). Il decreto consentirebbe al pubblico ministero che cura l’esecuzione di disporre la scarcerazione, senza necessità di richiesta degli interessati e in tempo reale, di oltre 10.000 detenuti. Persone di pericolosità ridotta la cui liberazione non creerebbe particolare allarme sociale (trattandosi, tra l’altro, solo di un rinvio dell’esecuzione), ridurrebbe le presenze in carcere al di sotto della capienza regolamentare e consentirebbe, in caso di necessità, misure precauzionali adeguate. Hanno adottato un provvedimento simile (ed anzi più esteso) Paesi non particolarmente attenti ai diritti umani, come l’Iran che, il 3 marzo, ha disposto la conversione del carcere in arresti domiciliari per ben 54mila detenuti con pena inferiore a cinque anni. Non c’è ragione perché non lo si faccia da noi. Superfluo dire che una misura siffatta tutelerebbe non solo i detenuti ma anche di chi (agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, medici, fornitori etc.) è comunque a contatto, in modo diretto o indiretto, con le strutture penitenziarie.

Terzo. Tamponata la situazione si deve affrontare la “normalità” del carcere, traendo dall’emergenza gli opportuni insegnamenti. Le politiche sicuritarie perseguite in modo bipartisan negli ultimi anni hanno provocato una crescita continua e incontenibile delle pene senza che ciò abbia ridotto insicurezza e paure. Per invertire la tendenza occorrerebbe ridefinire le politiche penali e le modalità di controllo della devianza, delle dipendenze e dell’opposizione sociale, cioè dei fenomeni che riempiono le nostre prigioni. Ma, per farlo, occorrerebbe una politica coesa o una maggioranza forte. Dunque non accadrà. C’è un’altra strada, possibile e razionale: quella di un uso oculato e intelligente dell’amnistia e dell’indulto, istituti risalenti nel tempo e utilizzati da sempre nel nostro Paese, dove, tra il 1946 e il 1990, ci sono state ben 17 amnistie (a volte con valenza politica, più spesso con finalità deflattive) senza che ciò abbia destabilizzato il sistema. Nell’ormai lontano 1992 peraltro, nel clima della nascente Tangentopoli, l’amnistia e l’indulto sono stati trasformati da istituti giuridici in bestemmie impronunciabili e si è riscritto l’articolo 79 della Costituzione richiedendo, per la loro adozione, il voto favorevole dei due terzi del Parlamento (cosa che rende la loro approvazione più difficile della modifica della Carta fondamentale). Razionalità vuole che oggi si ridia loro cittadinanza. Esse, infatti, consentirebbero, previo monitoraggio della situazione, di approntare interventi mirati e trasparenti in grado di evitare l’ingolfamento del sistema giudiziario e l’implosione del carcere. Questa consapevolezza comincia a farsi strada. Da ultimo è stato il presidente della Corte d’appello di Roma, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, a segnalare la necessità di un’amnistia per i reati minori. E molte voci in favore dell’indulto si sono levate in questi giorni dall’avvocatura, dalla stampa, dal mondo dell’associazionismo. È importante non lasciarle cadere.