Le mostre hanno un potenziale altissimo. Assumendo sembianza fisica nelle scelte di allestimento e nel confronto stringente tra le opere, le idee del curatore vi trovano un fantastico trampolino di lancio per passare al vaglio del pubblico ed entrare in un circuito più vasto. Dal canto suo, il visitatore vede aprirsi davanti a sé un campo privilegiato. Ha a portata di mano, simultaneamente, l’intera produzione di un artista o di una stagione culturale e può maturare con essa una familiarità che nemmeno quel maestro o quell’epoca poterono avere (questa riflessione è di Francis Haskell). Da qui alla creazione di una coscienza condivisa dell’esistenza e del valore del nostro patrimonio storico-artistico il passo è breve.
Oltre che terreno fertile di sperimentazione per la storia dell’arte, da qualche anno le mostre sono diventate esse stesse oggetto di interesse scientifico. In un tempo come il nostro, in cui eventi del genere si sono affermati come il luogo principe dell’incontro tra l’arte e il suo pubblico e per contro si assiste al dilagare di manifestazioni culturalmente irrilevanti, per non dire regressive, lo sguardo retrospettivo alle esposizioni passate, lungi dall’essere un’operazione nostalgica, può costituire una grandiosa sfida al presente.
Questo stimolo si ricava nel leggere due libri di recente pubblicazione: Caravaggio 1951 di Patrizio Aiello (Officina Libraria, pp. 224, euro 20,00) e Fortuna del Barocco in Italia Le grandi mostre del Novecento, a cura di Michela di Macco e Giuseppe Dardanello (Sagep Editori, pp. 352, € 35,00). Pur nella differenza d’orizzonte, i volumi disegnano una stessa traiettoria e dimostrano che certe mostre hanno ancora molto da dire all’attualità.
Come lascia intuire il titolo, Caravaggio 1951 approfondisce la Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi, l’evento che si tenne tra le sale del Palazzo Reale di Milano nella primavera del 1951, a cura di Roberto Longhi. Il campo, per quella che in premessa Giovanni Agosti valuta giustamente come «la più importante mostra caravaggesca mai tenuta», era stato preparato da decenni di aperture, intuizioni, dibattiti e polemiche; quarant’anni (a partire dalla tesi di laurea discussa nel 1911) in cui lo studioso aveva esplorato il pianeta della pittura naturalista di primo Seicento con precisione sempre vigile.
Tutt’altro che un mero assolo di quadri del Caravaggio, il piano curatoriale raccontava Michelangelo Merisi ad ampio raggio, censendone ascendenti e discendenti. L’intenzione era evidentemente quella di arricchire l’immagine del pittore, mettendo a fuoco i termini del rapporto instaurato col contesto circostante. Il tutto inteso come una proiezione su un piano spaziale delle sorprendenti ispirazioni con cui Roberto Longhi aveva trasferito le origini stilistiche del pittore da Venezia alla provincia lombarda. L’allestimento rafforzava, poi, il senso della ramificazione del verbo caravaggesco e puntava su una scansione generazionale della cerchia di pittori che, con varie motivazioni, trovarono in quell’espressione la propria via per affrontare il mondo.
Di indiscutibile qualità scientifica e forza innovativa, la mostra guidava la sensibilità collettiva verso un nuovo ancoraggio, che poneva Michelangelo Merisi ai vertici della creatività del suo tempo. In un colpo solo, quell’evento faceva da spartiacque e insieme da cerniera circa il modo di percepire la pittura del Caravaggio. Nelle parole dei recensori possiamo appena immaginare il sorgere di una crescita reputazionale che non si è più arrestata.
Patrizio Aiello è consapevole di maneggiare una mostra circondata dall’aura del mito, ma priva di adeguati apparati documentari. Persino il catalogo, lo strumento deputato a lasciare la testimonianza più completa della riscossa milanese del Caravaggio, ne restituisce un’immagine deviante (ad esempio, disperdendo la sistemazione ragionata dei pittori influenzati dal Merisi in un asettico ordine alfabetico). Reclama, perciò, all’occorrenza per fotografie e resoconti giornalistici lo status di fonti documentarie. Improntato a una volontà tenacemente ordinatrice, lo studio guida il lettore e si sofferma parete per parete a descrivere la consistenza e le ragioni del montaggio. Laddove la ricerca ha fruttato poco, l’autore ipotizza argomentando. Tra le righe affiora nitidamente il profilo di un’esposizione dai contorni meno mitici, ma certo più aderenti al vero.
Lo scarto tra l’evento e le sue testimonianze è oggetto di riflessione e si misura in maniera tangibile anche nella Fortuna del Barocco in Italia, antologia di un convegno che si è tenuto a Torino nel dicembre 2016. La connessione con il capitolo editoriale precedente, ovvero La riscoperta del Seicento. I libri fondativi del 2017, è evidente. Il primo libro raccontava la storia di una faticosa decontaminazione, identificando in sedici saggi le tappe critiche fondamentali per la rivalutazione della cultura figurativa barocca. In continuità con quello spirito, la nuova raccolta allarga l’orizzonte e mette a punto un’avvincente incursione nella vicenda novecentesca delle mostre dedicate alla civiltà italiana del XVII e del XVIII secolo.
Le mostre seguono a distanza, e con una certa lentezza, la rinascita del Seicento maturata negli studi a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, allargando quanto più possibile il confine della sua diffusione e finendo col diventare di per sé motore di rinnovamento critico. Archiviate le rassegne nel solco del nazionalismo postunitario – come quella sul Ritratto italiano del 1911, in cui la delegazione di effigi seicentesche era stata attrice non protagonista, e l’altra della Pittura italiana del Seicento e del Settecento del 1922 –, nel dopoguerra vedono la luce rassegne che si muovono su uno stesso registro metodologico e d’intenti. Gli ingredienti sono più o meno gli stessi: un sicuro controllo sui documenti figurativi, frequente ricorso a procedimenti comparativi, la prevalenza del principio del contesto di riferimento (quindi, una forte saldatura tra la storia dell’arte e la pratica della tutela). Il programma elaborato per le Biennali d’arte antica da Cesare Gnudi, Soprintendente a Bologna dal 1952, rappresenta in pieno questo spirito eroico e pioneristico. La scommessa di assegnare l’avvio dell’iniziativa a Guido Reni (1954), «il più impopolare dei pittori» come lo definì Benedict Nicholson, dice molto dell’ambizione di restituire credito a una pittura che pareva tramontata nel giudizio diffuso. Da qui in avanti un compiuto capitolo della storia dell’arte italiana d’età barocca – fatto di artisti, opere e nessi – avrebbe preso forma.
La schedatura si muove nella direzione di un racconto territoriale che, pur perdendo quel carattere di linearità proprio dell’altro volume, asseconda meglio la natura frammentaria del panorama espositivo nostrano. Attraverso i numerosi contributi (lo scenario di Roma nelle parole di Evelina Borea, quello di Torino campionato da Giovanni Romano e Chiara Gauna, la situazione di Napoli descritta da Andrea Zezza, quella di Firenze ricomposta da Claudio Pizzorusso e di Milano e Genova omaggiata da Francesco Frangi e Alessandro Morandotti), il volume disegna così una storia d’Italia attraverso le mostre dedicate al Barocco; una trama parallela a quella del nostro paese, dove il modo di concepire le mostre riflette strettamente la considerazione riservata all’arte stessa.