Nel 1962 Alexander Calder era approdato in Italia con il bozzetto di uno stabile: lo aveva chiamato Giovanni Carandente (1920-2009) nell’ambito di Sculture nella città, la grande manifestazione di scultura che accompagnava il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Carandente aveva mediato affinché negli stabilimenti Italsider di Savona quelle sottili lamine sagomate fossero tradotte nella più imponente scultura moderna in ferro mai realizzata prima: il Teodelapio, che da allora svetta di fronte alla stazione ferroviaria come una nuova porta urbica. Quell’evento si era rivelato cruciale nella storia delle grandi esposizioni, ma soprattutto aveva statuito un paradigma ancora inedito in Italia: Carandente era riuscito a far dialogare l’arte contemporanea con la grande industria, intuendo il virtuoso cortocircuito che si poteva ottenere portando quegli artisti dediti a una ricerca «da officina» nei grandi stabilimenti siderurgici, mettendo a loro disposizione artigiani specializzati per i quali il taglio e la saldatura della lamiera non avevano segreti, per un momento sottratti alla produzione e prestati alla scultura monumentale.
Non si può prescindere da questo scenario durante la lettura di Giovanni Carandente Scritti dal 1957 al 2008, la silloge di trenta testi che inaugura le celebrazioni per il centenario del critico, devotamente curata da Antonella Pesola, a cui va l’ulteriore merito di un’accanita e non banale appendice bibliografica, e pubblicata da Magonza (pp. 280, euro 25,00). Carandente è stato uno degli alfieri della scultura moderna, accanto a cui vanno ricordati – e meriterebbero altrettante antologie – almeno un decano come Giuseppe Marchiori e i più giovani Luciano Caramel e Enrico Crispolti. Marchiori stava facendo qualcosa di analogo con i Simposi del Marmo promossi dalla Henraux di Pietrasanta: non è mai stata rilevata la contiguità di questi eventi, che altro non facevano se non puntare al rilancio delle tecniche della scultura grazie a un mecenatismo imprenditoriale protagonista attivo del processo operativo stesso. Caramel, invece, aveva provocato un salutare cortocircuito fra riscoperta dell’Ottocento e istanze del presente; Crispolti, infine, era stato attore centrale del salto verso la dimensione ambientale e di impegno civile della scultura nello spazio urbano. Rispetto agli altri protagonisti della critica dedita alla scultura, però, Carandente era l’unico a poter fare leva su una posizione ministeriale da spendere in favore della scultura contemporanea, situazione che lo aveva messo molto presto nella condizione di realizzare alcuni eventi miliari nella storia della scultura e della sua fortuna, da Scultura italiana del XX secolo a Messina e Roma nel 1957, a Sculture nella città del 1962, fino ad Aspetti della scultura italiana contemporanea alla Biennale di Venezia del 1972, a quattro mani proprio con Marchiori. Vanno aggiunte le grandi retrospettive: una fra tutte, quella di Henry Moore al Forte Belvedere di Firenze, sempre nel 1972.
Spoleto, però, aveva segnato un punto di non ritorno, aprendo la via non tanto alle mostre di scultura all’aperto, quanto all’idea che queste potesse invadere gli spazi urbani e stabilire un dialogo con il contesto. Non erano ancora maturi i tempi per una vera e propria arte ambientale, ma Carandente era riuscito a innescare due meccanismi virtuosi: portare l’arte contemporanea – senza negare i crismi dell’ufficialità – fuori dagli spazi a essa consacrati, invitando gli artisti stranieri a lavorare in Italia per l’occasione. È il caso di David Smith: «Vulcano andò a Voltri», commenterà il critico nella monografia del 1964, ricordando l’artista entusiasta realizzare ventisei nuove opere, anziché le due concordate per la mostra.
Carandente, dunque, aveva giocato un ruolo nell’innescato dei meccanismi creativi e nel valorizzarli, poi, attraverso la grammatica espositiva, che nel suo caso, come per molti operatori attivi nell’amministrazione delle belle arti, deve essere interpretata come una forma di critica in atto, talvolta prefino più importante della stessa scrittura.
Era troppo presto per uno scavo fenomenologico: era già un sufficiente atto di emancipazione aver scelto la scultura contemporanea come preferenziale campo d’indagine, e avervi traghettato la lezione purovisibilista di Lionello Venturi, o di Arcadio o della scultura di Cesare Brandi. Eppure Carandente rimarrà legato al dettato limpido degli scrittori d’arte, volentieri spesi nel giornalismo più che nelle accademie: non stupisce incontrarlo sulle pagine di «XXe Siècle», una delle più belle riviste d’arte del dopoguerra, diretta a Parigi da Gualtieri di San Lazzaro, per il quale la critica d’arte migliore, dopo Baudelaire, era quella dei poeti.
Non di rado, infatti, la pagina di Carandente indugia nella testimonianza diretta, nel racconto di incontri, nell’aneddoto che apre uno scenario alla comprensione della forma. Col tempo, anzi, la riflessione di Carandente diventerà persino autobiografica, accompagnata da una precisa consapevolezza del proprio ruolo in prospettiva storica: gli anni eroici si allontanano nel tempo, ma a distanza appare evidente il ruolo chiarificatore che questi avevano avuto nel delineare un carattere o un’implicazione psicologica.
Le coordinate del suo discorso critico erano evidenti già a Messina nel 1957: una genealogia della scultura italiana che partiva da Modigliani e Boccioni, per approdare – passando Arturo Martini, quasi assenti Fontana e Melotti – alla generazione degli «scultori di razza», come scriverà parlando di Alicia Penalba, che scolpiscono o modellano, o comunque concentrati su problemi di puro linguaggio visivo. Fra le «curve improvvise», le «acute angolazioni» e il «fremito delle masse», volentieri Carandente si concede dei picchi di ispirazione letteraria per fornire un referto di stile, fra un’aggettivazione aderente alle sensazioni epidermiche, metafore o similitudini: il Popolo di Marino Marini diventa un «Adamo ed Eva da Doganiere Rousseau»; l’Ersilia dello scultore pistoiese «una demoiselle d’Avignon da quartiere popolare di una città toscana di provincia»; Trubbiani «novello Mathis der Maler», ovvero Grünewald nel melodramma di Paul Hindemit del 1934-’35. Oppure «la sezione aurea che rinasce come l’araba fenice dallo scarto dell’officina» in Ettore Colla, o un «lievito impressionistico» nel modellato di Giacomo Manzù. Del resto, Carandente lodava in Marini, in occasione della grande mostra romana a Palazzo Venezia, la «ricerca di una forma piena e non di un contenuto».