Un raccapricciante fatto di cronaca sta movimentando le acque già abbastanza agitate della politica venezuelana. Il 7 agosto, a Caracas, è stato trovato il cadavere fatto a pezzi di una donna di 53 anni, Liana Hergueta. Un’attivista di opposizione, che aveva partecipato alle proteste contro il governo Maduro, scoppiate l’anno scorso.

La donna aveva denunciato in twitter di essere stata truffata da un «dirigente studentesco», risultato essere Carlos Trejo. All’origine, una forte transazione di dollari al mercato nero: per un milione e 340.000 bolivar, Hergueta avrebbe dovuto riscuotere 5.000 dollari; ma l’uomo era scomparso col denaro senza lasciare tracce.

Qualche giorno dopo l’omicidio, la polizia arresta gli esecutori materiali del delitto: José Pérez Venta e Samuel Angulo. Confessano di aver agito su commissione, per conto di Trejo. Un delitto maturato nelle cerchie dell’opposizione oltranzista, a cui Venta e soci erano vicini ai più alti livelli, come risulta da immagini pubbliche e interviste. In un video diffuso dal governo, Pérez (che ha militato anche nell’organizzazione nazista Javu) conferma i finanziamenti illeciti alle attività cospirative dell’estrema destra e la presenza di paramilitari e di un ex generale nell’organizzazione delle proteste violente del 2014 e nei piani destabilizzanti ancora in corso. Da Miami, i media di opposizione suggeriscono che gli assassini fossero infiltrati, o mitomani, ma quel che è certo – oltre al barbaro omicidio della donna – è che, per famiglia e contesto, tutti risultano ben inseriti nel lato opposto del chavismo.

L’episodio rende ancor più incandescente il clima politico in vista delle legislative del 6 dicembre. Un appuntamento a cui il Venezuela sta arrivando stremato dal sabotaggio dei grandi gruppi privati che complica le disfunzioni interne e aumenta la corruzione. In questi giorni, il chavismo discute un’intervista concessa al Newsweek dal colonnello dell’esercito José Martín Raga, di stanza nel Tachira, ai confini della Colombia. Raga, che ribadisce la sua «fede nel socialismo come unico progetto di emancipazione dei popoli», denuncia sì la«evidente guerra economica», ma anche complicità e inadempienze nel contrabbando e nella crisi del paese.

Intanto, Maduro ha annunciato una nuova chiusura di 72 ore della frontiera con la Colombia, dove prospera il miliardario traffico di prodotti e dollari. La decisione è intervenuta dopo un grave attacco di paramilitari colombiani a una pattuglia che inseguiva bande di bachaqueros, trafficanti che svuotano negozi e catene sussidiate dal governo per rivendere i prodotti a prezzi stellari, dentro e fuori il paese: così chiamati dal nome di una formica famelica dal grosso didietro. Per beffare i controlli, i trafficanti scavano veri e propri depositi nel sottosuolo in cui custodiscono benzina e prodotti destinati al mercato nero. Molti vengono scoperti grazie alla popolazione (consigli operai o di quartiere) cui il governo fa ripetutamente appello.

L’azione delle destre, però, interviene sia dall’alto che dal basso. Mentre le grandi imprese inquinano e manovrano il mercato e la distribuzione dei prodotti, provocandone ad arte la scarsità, agitatori e paramilitari cercano di provocare saccheggi, anticipati (spesso a sproposito) dai grandi media privati. L’opposizione evoca una situazione simile alla rivolta del Caracazo. Seppur messa a dura prova, la popolazione è però in maggioranza consapevole delle cause che producono code e caos. I meno giovani ricordano la situazione che determinò, nel 1989, la rivolta del Caracazo. Allora, a fronte delle misure economiche neoliberiste insopportabili per i ceti popolari, vennero presi d’assalto i negozi.

Il governo di Carlos Andrés Pèrez (di centrosinistra) dette ordine all’esercito di sparare sulla folla provocando 3.000 morti, poi in gran parte sepolti nelle fosse comuni. Oggi, dopo 15 anni di governo socialista, la situazione è incomparabile. Nel 1989, il 47,5% della popolazione viveva sotto la soglia di sussistenza ed era obbligata a mangiare scatolette per cani per sopravvivere, come raccontava la stampa dell’epoca. Oggi, dopo aumenti decisi due volte all’anno (per un totale di 29 dal 1999), il salario minimo (sommando i sussidi), arriva a 3.375 bolivar, il più alto dell’America Latina. La povertà estrema oggi interessa il 5% della popolazione. A maggio 2015, si è registrato un tasso di disoccupazione del 6,6%, il più basso dal 1999.

Progressi ottenuti con una decisa ridistribuzione della rendita petrolifera e con un maggior controllo dello stato sull’economia. Una «rivoluzione» socialista sui generis, che ha puntato sull’inclusione e la dialettica democratica e non sull’espulsione o la messa fuorilegge delle classi dominanti: anche in Venezuela sono ben decise a riprendersi la torta. In questa occasione, i vertici di Fedecamara (la Confindustria locale) sono infatti tornati a proporsi come «salvatori della patria», a condizione che il governo accetti di rimettere indietro l’orologio della storia: con un pacchetto di misure economiche simili a quello imposto da Andrés Pérez ai tempi del Caracazo.