Cara Rossana,

non scriverò di te e su di te. Solo una donna della storia, come sei stata tu, poteva scrivere sorprendenti necrologi di persone note e meno note, che qualcuno dovrebbe raccogliere e pubblicare. Io potrei solo raccontare a frammenti, diventati parte di me, del mio pensare e sentire, della nostra lunga meravigliosa amicizia, del nostro amoroso battibeccare, della gratitudine infinita per il dono che mi hai fatto accogliendomi nella tua casa, nella tua vita, condividendo con me pensieri e scritture.

Oggi è il dolore di non poterti più rivedere, di non poter dare ancora un volto, una voce, ai tanti ricordi che conservo gelosamente di te e dei nostri incontri. Perciò ti darò addio come ho sempre fatto, con le tue parole, consegnate a quelli che tu chiamavi «libretti», fatti insieme, e che io considero invece, come ti ho detto più volte, la testimonianza più lucida, profonda e meno conosciuta della persona unica che sei stata, come donna e comunista. So quanto amavi come me il mare e mi consola in questa giornata il pensiero che, non molti giorni fa, sei riuscita a mettere ancora una volta i piedi nell’acqua.

Elaborazione di Andrea Marano

 

Non ti piaceva che ti nominassi su fb, ma oggi dovrai perdonare ai tant* che lo faranno, perché vivi e vivrai sempre per la preziosa eredità che hai lasciato, di una vita spesa per un mondo più giusto, ma anche per aver affrontato con tanta forza l’invecchiamento, la malattia, la morte. «Luciferina» sempre, come amavi dire di te. «Luciferona», come traducevo io, scherzosamente.

Da R.R., Quel corpo che mi abita, Bollati Boringhieri 2018

«Ho corso sempre, continuo a correre per capire un mucchio di cose (…) Quelli come me sono vissuti come una tessera del mosaico del mondo, sarà stata la guerra mondiale o il comunismo, in ogni modo è un bel vivere, non mi sono annoiata mai». «Voglio saperne di più, compreso il giorno della mia morte -vivrei in modo forse più dolente, ma forse anche più ricco. Ma lasciamo gli spunti luciferini e veniamo all’essere donna». «Il giorno che il corpo manderà a dirmi: “Senti, sono stufo, adesso basta”, spero che mi lascerà il tempo di dirgli: “D’accordo. E grazie, mi sono molto divertita”».

Da Manuela Fraire e Rossana Rossanda, La perdita, Bollati Boringhieri 2008.

«Dopo non voglio che nessuno mi guardi, non voglio essere esposta, non voglio i funerali. Non per pietà degli altri, ma perché io non sono più. (…) Non voglio impedire che qualcuno mi accompagni, che accompagni i miei cari, ma non voglio essere vista, portata in giro in una scatola, in una bara, voglio essere bruciata e via. Questo non è, credo, il timore della fine ma al contrario un ancestrale orrore di essere semivivi, trovarsi in una scatola, impotente e senza pace. È l’antico fantasma che teme i morti come sofferenti, invidiosi, da calmare. Forse esprime un attaccamento informe, primario, all’esistenza. Il pensare ai morti come vivi esiliati e infelicissimi. Un amico monaco mi disse un giorno: lo sai, ho paura di morire. E per lui, che era sul serio credente, la morte era davvero un passaggio temibile. Così mi pare di non aver più voglia di vivere e comunque non mi riesce di festeggiare i compleanni».

Da R.R., Anche per me, Feltrinelli 1987

«Duro, ma adulto sarebbe riconoscere che la condizione dell’uomo, appeso tra vita e morte, questo suo dato biologico, astorico, il residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, è il limite oscuro che incontra, al limite del suo cammino, una emancipazione politica: la cui forma e missione non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma soltanto (soltanto!) liberarlo dalla intollerabilità della ingiustizia».