In una ideale antologia dedicata alle prose dei poeti del Novecento italiano, lo spazio riservato a Leonardo Sinisgalli (1908-1981) sarebbe senza dubbio alcuno di assoluto rilievo per qualità, quantità e varietà di risultati e anzi, a conti fatti e accertato e accettato un simile dato, quasi imporrebbe più di una domanda su quale sia veramente stata, dentro quel lungo e rigoglioso percorso durato ben oltre il mezzo secolo, la passione dominante. Perché è proprio a partire dagli esordi che la multiforme, luminosa musa a cui si votò quel giovane di Montemurro, in assoluta solitudine, gli consentì una mobilità e una versatilità di interessi insieme antica e modernissima, accanto a una curiosità intellettuale straordinaria. L’alternanza dei generi appare infatti serratissima, come testimoniato dal susseguirsi dei titoli: Ritratti di macchine e Quaderno di geometria datano entrambi 1935, 18 poesie, Campi Elisi e Vidi le muse sono rispettivamente del ’36, del ’39 e del ’43 e poi ancora, a seguire, Furor mathematicus (’44), Horror vacui e Fiori pari, fiori dispari (’45), L’indovino (’46), I nuovi Campi Elisi (’47), Belliboschi (’48), I martedì colorati (’67), Calcoli e fandonie e Il passero e il lebbroso (’70), Mosche in bottiglia e Un disegno di Scipione e altri racconti (’75) e infine Dimenticatoio (’78). Poesia e prosa, come si vede, procedono insieme e si tengono strette anche cronologicamente. L’uomo rinascimentale era il suo modello e tale col tempo apparve ai lettori più avvertiti. L’angoscia, così tipica del secolo scorso al punto da trasformarsi in forma e stile, mai ne scalfì la misura e la chiarezza classiche.

Qui, per restare al secondo mestiere, possiamo misurarne la sostanza e il peso specifico nei due volumi che Mondadori ha mandato in libreria a distanza di pochi mesi, vale a dire i Racconti («Oscar Moderni», pp. LIV-337, euro 15,00), accompagnati da un saggio introduttivo di Silvio Ramat, e Furor mathematicus («Oscar Moderni Baobab», pp. 408, euro 24,00), per le cure di Gian Italo Bischi, edizione quest’ultima che riproduce quella, esaustiva e non mutilata, del marzo 1950. Occorre subito sottolineare ancora una volta come siano almeno due le cifre che attraversano, inseguendosi senza soluzione di continuità, la non esigua opera in prosa di Sinisgalli, ovvero la memoria e l’invenzione, riflessione critica e slancio immaginativo e conoscitivo. Nei Racconti – dove vengono riuniti Belliboschi, Fiori pari, fiori dispari e Un disegno di Scipione e altri racconti – è tutto un precipitare nel pozzo senza fondo dei meravigliosi, selvaggi anni dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsi in Lucania, dentro un paesaggio anche umano del tutto incontaminato, povero e dignitoso, così tipico dell’umile Italia contadina. Passano – e sono già simili a fantasmi, a fuochi fatui – le figure dei genitori, delle sorelle (in specie di Angela che, consacrata a Dio, diventerà suor crocifissa), della cugina Elisabetta, oggetto di pensieri amorosi, somigliantissima alla madre del futuro scrittore e, a causa di ciò, malvista da quest’ultima, dei compagni di scuola e di giochi. Gli inverni sembravano in terminabili e freddissimi, il gelo rendeva impraticabile il cortile del collegio. Era, arrivata la primavera, il tempo delle gite familiari in carrozza, lungo le strade di campagna. Riemergono i «cari nomi» di persone e di luoghi – Verdesca o, appunto, Belliboschi – che hanno reso indimenticabile, anche con il loro suono, un periodo della vita poi scontato con un sentimento infinito di perdita, come se «da quel paradiso» si fosse stati cacciati ingiustamente.

Poi ci sono le scoperte, quella della scrittura e del sesso, i viaggi e le permanenze sempre più definitive a Roma e a Milano, i nuovi compagni di via e gli incontri cruciali (il pittore Scipione, Libero de Libero, Mario Alicata, Vittorini, Cardarelli, Mario Mafai, Ungaretti…), la vita nuova, le lunghe passeggiate notturne con gli amici, le discussioni, le sigarette di qualità scadente fumate con furia, divorate. Ma nulla c’è di naturalistico nelle prose di memoria di Sinisgalli. Tutto è controllato, preciso, essenziale, scolpito in una fissità leggendaria e fantastica. Si prenda, ad esempio, il quindicesimo capitolo di Fiori pari, fiori dispari, laddove compare per la prima volta Scipione, presenza poi frequentissima. Viene mostrato «vestito di grigio, alto, biondo, elegante. Un po’ consumato dalla malattia», di notte, nelle sere d’estate, si fermava qualche volta a dormire all’aperto, a villa Sciarra, «tra i pavoni». Oppure la visita al cimitero del Verano, in una mattina fredda e limpida, per rendere omaggio alla piccola urna di Sergio Corazzini. O ancora, il racconto «Lo scheletro cinto d’oro», in Belliboschi, con quel clima di metafisica immobilità che nel pastorello si trasforma in leopardiano spavento.

Ma Sinisgalli fu anche allievo di Tullio Levi-Civita e di Enrico Fermi. Laureatosi in ingegneria, il lavoro lo condusse a occuparsi di grafica e di pubblicità in grandi aziende come l’Olivetti, la Pirelli e l’Eni. Diresse, tra il 1953 e il 1959 la rivista «Civiltà delle macchine». Proprio dentro tale contesto è necessario collocare l’altra cifra della sua scrittura in prosa così come la ritroviamo in Furor mathematicus, un’opera che si costruì nel tempo a formare un edificio in cui le varie discipline si intrecciano e si mescolano, dall’architettura al design, dalla letteratura alla pittura, dalla matematica all’arredamento (in specie, con osservazioni formidabili, nel suo rapporto con la creazione letteraria) e alla geometria. L’autore era convinto che ogni «opera d’arte compiuta contiene in sé tutte le altre». E senza dubbio, aggiungeva, «a immaginare una città riesce meglio un poeta come St. J. Perse, un pittore come De Chirico, un filosofo come Tommaso Campanella, un vescovo come Sant’Agostino, che un architetto come Le Corbusier». Suggestioni e paradossi, e tuttavia, per mezzo di una scrittura tersa e mai ridondante e sempre votata all’esattezza, le invenzioni producono una sorta di personalissima grammatica dell’immaginazione che conserva, come notò Giuseppe Pontiggia, «il reticolo dei nessi nella nella loro legittimità». È un punto nodale che Gianfranco Contini, da sempre acutamente attento all’opera di Sinisgalli, dopo aver parlato di «cifrario fantastico», nella lettera-prefazione a Calcoli e fandonie (1970) prova a sciogliere definendolo come «un partigiano della Ragione a cui l’analogia dell’invenzione matematica suggerisce continue infrazioni di Disragione, a loro volta continuamente riassorbite nella Ragione».

Nelle varie sezioni di Furor mathematicus, pagina dopo pagina, la prosa saggistica lascia il posto all’aforisma, la lettera (due quelle dirette proprio a Contini) ai dialoghetti de «L’indovino», le riflessioni intorno al fare poesia alle agudezas di «Horror vacui». Una vertiginosa, leonardesca lussuria della mente, come è stata definita. Molti hanno ammesso debiti nei confronti di questo Sinisgalli, e qui vale la pena, in conclusione, di ricordare le straordinarie parole di riconoscenza di Paolo Portoghesi in un saggio premesso a una bella edizione delle Promenades architecturales (seconda sezione del Furor, pubblicata nel 1987): «Dalle pagine di Sinisgalli ho assorbito impercettibilmente e gradualmente che rileggendolo a distanza d’anni metto a nudo le mie radici, riscopro le origini prime delle “fissazioni”, delle manie a cui sono rimasto fedele e che hanno dato un senso alla mia vita: la critica affettuosa – da dentro – della tradizione moderna, per esempio, o la nozione di luogo con tutto quanto da esso discende di misterioso e di sacrale. E, parlando della mia architettura, la scelta di Borromini come maestro, la passione di Valéry, il gusto della contaminazione tra la geometria dei cristalli e la geometria delle forme viventi, il mito delle “torri astruse” che continuamente riemerge nei miei schizzi e per una volta si concretò nello spazio in occasione della mostra milanese dei Labirinti; tutto questo Sinisgalli l’ha seminato nella mia testa o quando già c’era lo ha concimato come un sapiente giardiniere».

* * *

C’è, ad accompagnare Dimenticatoio, datato 1978 e dunque ultimo libro di poesie di Sinisgalli, una breve avvertenza rivolta ai lettori – un’avvertenza (come ebbe modo di notare Contini) che meriterebbe di venir citata per intero. In essa l’autore, con la lucidità dalla quale mai gli capitava di abiurare, ripercorre le tappe del proprio lavoro in versi, che prese avvio nel 1927 con Cuore e poi con l’esordio ufficiale delle 18 poesie del ’36. È un bilancio aspro e forte tutto rivolto allo stato presente in cui si premette di voler accettare «come un’umiliazione» e una condanna il progressivo, inarrestabile prosciugarsi del dettato lirico fino all’esito epigrammatico. E poi prosegue: «Nei primi libri prevalse lo spirito geometrico (“il senso della misura e della posizione”) e così il rispetto della simmetria e dell’uniformità. Dalla fine degli anni Cinquanta è cominciato il cedimento della materia espressiva, che si è disarticolata, ha perduto coesione e fermezza. Forse è venuta meno la fede nell’Opera che a sprazzi ha lasciato scoperto qualche residuo di vecchie idolatrie artigianali». Niente più allora «fantasmagorie analogiche», niente più «canto». Non rimane che «parlare», affidandosi al «respiro corto della frase» che va a coincidere col respiro stesso della decadenza fisica, con l’«inerzia» e l’immobilità. «L’artrosi, la cattiva circolazione, – continua Sinisgalli – mi hanno rotto le braccia, le gambe. Mi muovo poco, intorno a casa. Trascorro giorni e giorni dentro la mia camera fissando il vuoto».
Questa spietata auto-rappresentazione e questo desolato quadro del poeta da vecchio, insieme all’insistenza sul rapporto tra poesia e biologia, saranno ancor più utili ora che, per l’ottima cura di Franco Vitelli, si stampano Tutte le poesie (Mondadori «Oscar Moderni Baobab», pp. LV-455, euro 24,00), ad anticipare di poco il quarantennale della morte. Utili, s’intende, a calcolarne la veridicità e non certo il valore altissimo dei versi ultimi ed estremi, i quali sembrano preoccuparsi più della cosa che del come, d’altra parte non diversamente dal Montale del Diario del ’71 e del ’72 e del Quaderno di quattro anni oppure dall’Auden delle fulminanti sequenze degli Shorts. Appunto: si tratta anche qui di autentici distillati di gnomica sapienza. Colui che era stato definito l’«ingegnere dell’ermetismo» si piega verso una pietrosa antieloquenza, al «non-colore», a un dettato sospeso, incompiuto. In occasione di una commemorazione postuma, Contini, il critico che più ha seguito il percorso creativo di Sinisgalli (suo è il saggio, sue le «avvertenze al lettore» in apertura di Vidi le muse, 1943), parlò di una tarda fase che mostra «la sua natura prosciugata esposta in misure scalene, nel giro breve dove anche il pathos si disseccava: il mondo perdeva dimensioni, abitato da essenze quotidiane e preumane (mosche, scorpioni, ortiche), i sentimenti diminuivano al limite di spessore».
Le due fasi della poesia di Sinisgalli, ora che abbiamo tutta l’opera, appaiono evidenti: con L’età della luna (1962) si chiude grossomodo la prima, con Il passero e il lebbroso (’70) si inaugura la seconda e ultima. Senza tuttavia tralasciare almeno uno degli elementi unificanti che con così grande acutezza ha saputo illuminare Andrea Zanzotto in un saggio del 1974 poi incluso in Aure e disincanti del Novecento letterario, laddove osserva come questa poesia sia «profondamente connaturata alla bellezza e al dolore del Sud (un Sud assai lontano da quello più vulgato, e fatto di solitudini nevose e astratte, impervio proprio nel suo trasparente realismo lucano, animato da segni di colture, da anti-riti, da interni e “campi lunghi” in cui si muovono figure familiari e l’io-infanzia), ed essa è anche vagabonda attraverso nomi di città, strade, luoghi, attraverso scienze e nomi della scienza: forme tutte di un altrove irrinunciabile».