Come per Black Panther e ancor più come accadde con il remake al femminile dei Ghostbusters i tentativi di boicottaggio nei confronti di Captain Marvel – la prima supereroina «titolare» del Marvel Cinematic Universe – sono stati agguerriti, tanto che il sito Rotten Tomatoes, che raccoglie le recensioni e i giudizi del pubblico , ha bloccato i commenti sul film che abbondavano già settimane prima dell’uscita nei cinema del cinecomic (da oggi in sala in Italia) – la maggior parte per danneggiarlo «a scatola chiusa». Il glass ceiling, la barriera invisibile ma ben tangibile che incombe sulle donne e le loro carriere – anche se immaginarie – si rivela dunque ancora una volta ben saldo, specialmente quando in discussione ci sono ruoli che certo immaginario relega alla sfera maschile – che siano i supereroi o la presidenza degli Stati Uniti.

NON A CASO è proprio questo il tema di fondo di tutto Captain Marvel – diretto e sceneggiato dalla coppia Anna Boden e Ryan Fleck – che punta a farsi metafora della condizione femminile, del potenziale inespresso delle donne in una società che le reprime. E alla «capitana», futuro membro degli Avengers in quello che sarà il capitolo conclusivo di questa terza fase dell’universo cinematografico Marvel – Endgame – viene dedicata una delle origin story più atipiche dei cinecomics: prima degli Avengers, di Iron Man e persino dei primi vertiginosi voli fra i grattacieli di New York del Peter Parker di Sam Raimi, ambientata negli anni Novanta «vintage» delle cabine telefoniche, le lentissime connessioni a internet, i Nirvana, i No Doubt e i buddy movie a cui fa il verso il sodalizio fra l’eroina (Brie Larson) e Nick Fury (Samuel Jackson ringiovanito con la computer grafica) a capo di una Shield che ancora non contempla l’esistenza di alieni o persone con i superpoteri.

LA PROTAGONISTA Vers, guerriera del popolo Kree, piomba infatti sulla terra – per loro pianeta C-53 – attraverso il tetto di un Blockbuster di Los Angeles (dove contempla un po’ allibita il dvd di Uomini veri) – il più compiuto relitto di un’epoca letteralmente spazzata via. La sua missione è scovare sul nostro pianeta degli infiltrati del popolo Skrull, nemici giurati dei Kree che possono assumere le sembianze di chiunque guardino. Vers, che ha memoria solo dei suoi ultimi sei anni sul pianeta dei Kree – dove la allena il comandante Yon Rogg interpretato da Jude Law – vuole anche scoprire la sua vera identità, celata fra i frammenti di una bella sequenza di flashback all’inizio del film.

Come per l’apparenza multiforme degli Skrull niente è come sembra, e la ricerca della verità porterà Vers a confrontarsi con una lunga catena di menzogne e insabbiamenti in quello che, insieme a Black Panther, è il più deliberatamente politico dei film Marvel e mette in scena l’ossessione per i confini impenetrabili, la creazione a tavolino del nemico, le sofferenze dei rifugiati – perseguitati attraverso la vastità di galassie che evocano i nostri mari, deserti e muri lungo i confini.

LA TERRA: «Che buco di merda» dice una delle commilitone Kree della protagonista, le stesse identiche parole usate in un altro film degli anni Novanta, Alien – La clonazione, che evoca nel primo cinecomic Marvel al femminile una delle più splendide eroine del cinema: il tenente Ellen Ripley. Ma Vers dovrà scovare dentro di sé proprio la sua natura terrestre per diventare l’inarrestabile Captain Marvel, contro le costrizioni che le impone l’addestramento Kree, il cui vero imperdonabile peccato è mettere davanti il bene collettivo a quello individuale – l’angoscia degli «ultracorpi» traslata nell’universo espanso dei supereroi – a cui la razza umana (o meglio americana) oppone il proprio inscalfibile individualismo, precondizione di ogni vero atto eroico.

Primo film del Mcu uscito dopo la morte di Stan Lee, Captain Marvel omaggia il «padre» scomparso dei supereroi nei titoli di testa e nel consueto cammeo di Lee, nella sequenza sul treno in cui la protagonista alla ricerca di uno Skrull sotto mentite spoglie gli rivolge un sorriso d’intesa, affettuoso tributo a chi prima di tanti altri ha saputo immaginare e farsi cantore della diversità variopinta di mondi, e universi, senza soffitti di cristallo.