Che la Bestia del Conte di Kevenhüller sia il male in tutte le sue metamorfosi, e che la res amissa – la cosa perduta – coincida invece con il bene di cui non si ha più memoria, lo spiega lo stesso Giorgio Caproni in un appunto alla sua ultima silloge, riportato da Agamben nella premessa all’edizione postuma. Questa dicotomia può tradursi in un modo particolare di concepire l’istituto dell’io? Ciò che si è perso («non ne trovo più traccia») non è solamente un dono, ma un’intera condizione soggettuale: la possibilità e l’orizzonte dell’Eden, la coscienza di una perfetta letizia o, se vogliamo, la concezione immacolata. Strano a dirsi: Caproni, l’antimetafisicante o il patoteologo, cacciatore a tratti rodomontesco (ringrazio Domenico Pinto per avermi ricordato, su queste pagine, l’aggettivo) e picconatore di muri della terra, sperimenta «la spina della nostalgia» per una purezza nello sguardo. È in un simile décalage – tracciato da prolessi e analessi, punti sospensivi e uso spericolato delle parentesi (lo illustra Niccolò Scaffai in un saggio di Il lavoro del poeta, Carocci 2015) – che si chiede conto dell’indescrivibile. Parola sfibrata, soggetto franto, oggetto in fuga. Sintesi di tutto il Novecento. Il «presto sarò chi sono» con beneplacito un po’ allocchito di Borges, ma anche il «restare / qua, dove non fui mai» di un viaggiatore poco cerimonioso, indicano il tendere a edenica completezza, quantomai contemporanea, tanto da far sussultare giovani lettori. Cordiali saluti al bravissimo «Caproncello» – traggo la definizione da un libro di Luigi Surdich (Le idee e la poesia, il melangolo, 1998) –, qui sopravviene il «grande Caproni», nel perenne zigrinarsi di bicchieri, nel granitico irrecuperabile dell’ossidiana.
E quale trafila ha seguito il passaggio? Fino a Il seme del piangere il livornese ha per tema la signoria muliebre che «apre riviere», il paesaggio sbarbariano di precisione ligustica, Annina-capinera che svolazza in bici: temi di una cantabilità «dissonante», come dimostra il volume miscellaneo «Per amor di poesia (o di versi)» Seminario su Giorgio Caproni (a cura di Anna Dolfi, Firenze University Press, pp. 232, € 17,90). L’esigenza di chiarità interviene con congrui tentennamenti dagli anni sessanta e diventa diktat der Poetik dal ’75 in poi. Ma si può notare in prosa un lampo controcapronesco: già tra il ’58 e il ’61 con la rubrica apparsa sulla «Fiera Letteraria», il Taccuino dello svagato, del quale Passigli (pp. 270, € 28,00) ripropone oggi i quarantanove testi per la prima volta presentati in maniera organica dal curatore Alessandro Ferraro. È un Caproni «tra le nuvole» che però mantiene scioltezza e modernità – si occupa anche di Elvis Presley e di Lascia o raddoppia? –, con le mani saldamente sul volante quando si tratta di scagliare giambi alle «persone quadrate», e leopardianamente ripiegato nei «suoi fiori d’alga e i suoi mostri in profondo».
Se il taccuino è il cuore, situato «a occidente del portafogli», l’immagine che il poeta vuol dare del poeta in extenso è quella di un uomo comune, «svagato» appunto, «nel vero concreto del mondo», capace di scorgere le cose sotto un’altra luce: irragionevole e spietata per molti («falsa lapalissade»), polita e profetica per chi sa guardare oltre la diafanità del pretesto. I flash di viaggio, persino in ipotetiche quanto abissali Canarie («la frenesia di Las Palmas»), una visita inventata alla tomba dei genitori e le truci storie di cronaca riflettenti le inveterate passioni dell’Italia del boom economico, stroncature negate perché nessuno scrittore riesce a «farci uscir dai gangheri», sono la scusa per scartare l’abbecedario della pratica quotidiana, far comprendere come l’autore esista al di là dei suoi versi (e addirittura li preceda negli elzeviri: Ferraro nota infatti una singolare «compattezza figurativa»). Sempre invaso dalla difficoltà di offrire senso formalmente spiritualizzato, causticamente iconizzato alla materia del canto, quasi fosse, questa, una motivazione – la più alta – al vedere. Ed è nell’orlo di un’etica sfalsata dalla società «del ferro e del fuoco», «fra i due estremi della raffinata cultura e dell’analfabetismo anche addottorato», che la preoccupazione caproniana si fa irremeabile. Nessun passaggio di Enea può restituire vigore e sangue allo strappo. Il poeta «per sua disgrazia vede uomini e cose non dall’esterno ma dentro, con in più il dono amaro di capire e antivedere».
Ecco allora che manca una conoscenza integra, l’evenienza cioè di una realtà trasfigurata, in grado non certo di scarnificare algidamente i volti, ma di dare segno rivelatore a quell’animale simbolico che è l’uomo, ancora proteso alla «drammatica Ipotesi di Dio». Lo svagato perde il suo taccuino e imbraccia le armi: è l’ora della caccia. Sennonché punge il ricordo d’infanzia, la «stagione pura» in senso pneumanalitico (dal libro di Elvira Lops La stanza del re, Raffaelli 2017), donde l’idea di una pneumocritica oltre Mauron, la diffrazione di un’immagine perduta e ritrovata che è dentro di ognuno: «La vedevo alta sul mare. / Altissima. / Bella. Bianchissima, mi perforava / l’occhio: / la mente».