Nel mezzo del silenzio di anni di crescita costante del costo della cultura il rumore delle transenne che si spostano a Pisa e i 150 ragazzi e ragazze che irrompono al concerto di Vinicio Capossela impongono di fermarsi e ragionare. Benchè il centro della protesta dei collettivi pisani fosse la privatizzazione dello spazio pubblico, la loro azione apre a domande ben più profonde e radicali, la prima è se la musica e la cultura siano un prodotto da lasciar gestire unicamente al far west del mercato e quindi accettare con normalità che non siano un bene primario e fondamentale per lo sviluppo della società e che sia così accessibile solo a chi se lo può permettere. I biglietti dei mega concerti superano facilmente i 100 euro, e la media di ogni singolo spettacolo cresce. Sono rari i luoghi dove la volontà degli artisti o l’imposizione di un biglietto calmirato descrive una traiettoria diversa. La cultura e la musica sono sì un prodotto, ma un prodotto non convenzionale.

NON POSSIAMO negare che di cultura si vive e si deve vivere, certo possiamo evidenziare come dentro la filiera produttiva ci siano precarietà e sfruttamento a livelli allarmanti. Troppo spesso giocando sulla passione delle persone si utilizza lavoro sottopagato, promettendo visibilità, conoscenze e possibilità. E troppo spesso chi ha il sogno di far parte del settore è pronto a piegarsi alle peggiori condizioni. Ma al netto di ciò la filiera produttiva ha dei costi, ed è legittimo, finché saremo dominati dalla necessità di avere denaro per sopravvivere, che chi ci lavora sia pagato. Dall’artista al facchino. E con la cultura ci si arricchisce anche, quindi sì certo è un prodotto. Ma perché parlo di prodotto non convenzionale? Perché la cultura e quindi la musica, il cinema, il teatro, la letteratura e tant altro sono uno strumento primario di sviluppo della società, di idee e un potente mezzo di comunicazione. E allora la protesta dei ragazzi e delle ragazze di Pisa non solo non è una riproposizione dell’autoriduzione degli anni ’70, come alcuni operatori del settore della musica hanno voluto far credere, ma è intuizione attualissima che pone delle evidenti questioni politiche: cosa deve fare la politica, nei suoi diversi livelli, per mediare tra i costi della cultura e la necessità di renderla accessibile anche a chi non può permettersela?

QUINDI i collettivi pisani sfondando al concerto di Capossela non solo denunciano che l’amministrazione locale ha deciso di limitare l’uso della piazza alla libera aggregazione con la scusa di realizzare concerti, ma si inseriscono in una dinamica enorme, che trova come giustificazione primaria la crescita dei cachet degli artisti che colmano così la scomparsa degli introiti discografici, e di fatto aprono una crepa cancellando il torpore con cui da troppo tempo si è accettato che la cultura sia puro commercio. Se una parte delle responsabilità sono anche dei consumatori che da anni hanno accettato, silenti, di pagare sempre di più per entrare ad un concerto, legittimando di fatto anche il velenoso fenomeno del secondary ticketing e con esso il prezzo fluttante dei tagliandi, dall’altro le grosse responsabilità della politica dell’anti ideologia sono presenti anche se più nascoste. No, la soluzione non è che i comuni, le regioni o altre istituzioni organizzino eventi gratuiti, o meglio è un pezzo di un discorso.

LA SOLUZIONE non va cercata nemmeno nelle tante situazioni estive che propongono musica in maniera gratuita, esperenze che spesso sono possibili perché basate sul lavoro di volontariato dell’organizzazione. Certamente la politica deve porsi come mediatrice tra i bisogni della filiera cultura e la necessità di non lasciare la cultura solo a pochi. Il grido di Pisa non si può colmare con le poche esperienze virtuose, pubbliche o private, che non negano i costi della cultura ma si pongono il nodo dell’accessibilità. Dove queste esperienze esistono vanno prese da esempio.