Nel luglio del 1943 l’intera Prima Divisione prese il largo. Scoprimmo allora che il nostro obbiettivo era la Sicilia. .

Lo sbarco in Nord Africa era stato roba da bambini in confronto all’invasione della Sicilia.

Adesso eravamo in Europa. A casa del Duce. L’anticamera di Hitler.

 

C’erano trecentomila soldati italiani e tedeschi in Sicilia.

Avremmo dovuto combattare ogni battaglia con le unghie e i denti. Avevamo gia’ visto dei nemici, ma mai così tanti.

 

Cristo, eravamo nel loro giardino! La psicologia è un’arma essenziale in tempo di guerra. Ecco perchè per noi era difficile combattere contro gli italiani. Non avevamo nei loro confronti lo stesso odio che portavamo ai tedeschi. In ogni battaglione, c’erano degli americani d’origine italiana. Alcuni di loro conoscevano anche la lingua.

 

C’era un dogface (slang per soldato di fanteria n.d.r.) di San Francisco che voleva a tutti I costi trovare sua nonna vicino a Caltinessetta. E, perbacco, ci riusci’!

Di solito i siciliani ci accoglievano bene. Dopo un assalto, quando i nemici erano stati uccisi o messi in fuga, gli abitanti dei villaggi – per la maggior parte donne, bambini, e vecchi – tiravano fuori vino, pasta, frutta, e fiori.

 

I loro giovani erano stati costretti ad arruolarsi nell’esercito fascista. Tanti non sarebbero mai tornati.

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Era difficile disprezzare i civili, anche se sapevamo che qualche giorno prima del nostro sbarco facevano ancora il saluto a Mussolini. Dovevano pure sopravvivere. Un giorno, passavamo vicino a un casolare dietro un muro di pietra. L’intera famiglia stava fuori, mamma, nonna, nonno, e bambini. Cantilenavano:

 

Mussolini, no good… Mussolini, no good…”Eravamo paranoici, sospettosi di tutti e di tutto, e ci fermammo per controllare il casolare, nel caso nascondessero delle armi.

Non c’era nulla di irregolare. Ma quando entrammo nella stalla, trovammo una ragazza sui diciott’anni nascosta dietro alla mangiatoia degli asini.

Era piccola e ben fatta, con un volto grazioso, occhi scuri, e capelli neri.

La trascinammo fuori, scalciando e gridando.

 

Uno dei nostri dogfaces italo-americani le disse che non c’ere nulla di cui aver paura. Al che lei cominciò vomitare bestemmie.

“Che cos’ ha?” chiesi io.

Il dogface ci spiegò che ci stava chiedendo di ammazzare ogni fascista in Sicilia e che, una volta a Roma, bruciassimo vivo Mussolini.

“Tutte stronzate,” commento’ il doggie bilingue.

La ragazza capì cosa stava dicendo ed esplose in altri epiteti pieni d’odio.

 

Improvvisamente, si fermò e aprì la camicetta. Invece di un reggiseno, I suoi seni erano coperti da sozze garze mediche.

“È stata colpita al petto?” chiese il nostro sergente. “No. Dice che un fascista l’ha stuprata e le ha staccato i capezzoli a morsi.”

Rimanemmo di stucco, nauseati dal suo racconto.

“Sta mentendo,” disse il nostro traduttore.

“Perché non le credi?”

“Conosco questi leccaculo. Quando Mussolini era sulla cresta dell’onda, impazzivano per quel bastardo.

Adesso hanno capito che e’ spacciato, e lo odiano tutti. Come se il fascismo non avesse mai preso piede in Sicilia. ‘Col cazzo non ha preso piede!

Al che staccò una delle garze. La ragazza lancio’ un urlo. Davanti ai nostril occhi, sul seno mutilato, erano visibili le impronte dei denti. Al posto del capezzolo, c’era un brutta ferita viola.

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Impallidimmi e ci tirammo indietro. Con dolcezza, il sergente riportò la ragazza dalla sua famiglia e diede loro della garza pulita e dell’antisettico. Noi stavamo lì in piedi, muti.

“Okay,” ringhiò il soldato incredulo, sotto schock, “mi sono sbagliato.”

Pieno di vergogna, si avvicinò alla ragazza, e alla sua famiglia. “Signorina, per favore. Sono molto desolato, molto, molto.”