L’esercito libico ha deciso di intervenire per porre fine ai violenti scontri che da due giorni contrappongono gruppi armati a ovest di Tripoli, proprio mentre è in corso una guerra di posizione per il controllo dei giacimenti petroliferi (che preoccupa l’Eni). Sono almeno 6 i morti e 16 i feriti il bilancio di due giorni di scontri a Tripoli. I combattimenti hanno visto fronteggiarsi uomini della città di Zawia (a 50 km a ovest della capitale), vicini ai ribelli, e della tribù Warshfana, tradizionali sostenitori del regime di Muhammr Gheddafi, provenienti da Zahra (30 km a ovest di Tripoli). Secondo la stampa locale, gli uomini della tribù Wershfana hanno fatto irruzione in un ospedale di Zawia uccidendo due persone e questo avrebbe innescato gli scontri. Ma le violenze non si fermano in tutto il paese. Uomini armati avevano ucciso il colonnello dell’esercito libico Mustafa Al-Aguili, all’uscita da una moschea di Bengasi. Lo ha riferito una fonte di sicurezza. Stessa sorte era toccata la scorsa settimana ad un giudice, sempre all’uscita da una moschea.

Proprio per le continue violenze, il premier libico Ali Zeidan ha annunciato l’avvio del dialogo nazionale su riconciliazione nazionale disarmo e sicurezza. «Vorremmo formare una commissione di personalità della società civile libica che cominceranno a discutere della futura Costituzione, di riconciliazione nazionale, di sfollati e profughi, di disarmo e di sicurezza», si legge in una nota. Per Zeidan sarà necessario il sostegno della missione delle Nazioni unite in Libia. Per il capo della Missione Onu, Tarek Metri «solo il dialogo permetterà di risolvere le divergenze tra i libici e di chiarire le diversità della società libica» per recuperare l’identità nazionale del paese.

Qualche giorno fa, la missione di sostegno Onu in Libia (Unsmil) ha respinto le accuse di dividere il paese rivolte da Dar Al-Ifta, la massima autorità religiosa del paese. «I libici non hanno sacrificato le loro vite in modo da permettere alle Nazioni Unite di dividere il paese», si legge in un documento firmato dal Gran Mufti Sadiq Ghariani.