U Fujutu è una carta dei Tarocchi Siciliani, l’equivalente del Matto. Un jolly, un imprevisto, un giullare che canta la verità che nessuno vuole più sentire, ed è la cantilena – il «cuntu» – che è anche la sua condanna: «Non sai mai cosa combina, U Fujutu… è l’irrazionale, l’istinto, la fame che irrompe nella storia. È l’ombra che non puoi ignorare perché cammina con te. In tempi di servitù può essere l’ultima occasione di fierezza». Cesare Basile mi racconta così il suo nuovo disco, con lo stupore che gli ha incanutito la barba, ma con la saggezza di maestro punk. Dopo essere scappato dalla Sicilia alla Berlino post-Muro con i Quartered Shadows, dopo aver prodotto i primi straordinari dischi solisti contaminando l’underground milanese con la sua poesia visionaria, nel 2011 spiazza tutti e torna nella sua Catania.

L’amata e odiata città di lava e umori nordafricani, un tempo definita con un po’ di fantasia «la Seattle italiana». Registrato ancora una volta al riparo dello Zen Arcade, la fucina presso cui gente del calibro di Afterhours, Hugo Race (ex-Bad Seeds), John Parish (braccio destro di PJ Harvey) hanno affilato le chitarre per le loro produzioni migliori, U Fujutu su nesci chi fa? pubblicato per la gloriosa Urtovox, che da anni ha investito caparbiamente su Cesare.

I brani esplodono nella loro abbagliante bellezza: Ljiatura è uno choc, e apre le danze con un mantra circolare che sembra arrivato a Catania direttamente dal Mali. Tri nuvuli ju visti cumpariri incede inesorabile su un solo accordo. Cincu pammi ci culla come una ninnananna punteggiata da poche note di pianoforte e una chitarrina appena sfiorata. Tutto cantato in siciliano…

U Fujutu è davvero impressionante, un colpo di spugna a trent’anni di musica per ricominciare da zero, ma con un pugno ben assestato in piena pancia. Gli chiedo che cosa ha scoperto realizzandolo: «È un disco registrato senza controllo. Stavo attraversando un periodo particolarmente difficile sul piano psicologico, questo stato d’animo non mi permetteva di esercitare alcun tipo di razionalità. Ho vissuto come l’animale che annusa nell’aria un pericolo imminente, scappando, attaccando, fingendomi morto». «E la Dannata?», gli chiedo. «È il teatro in cui ho ambientato questi racconti. Lo spazio di un perverso sortilegio.

Volevo un nome per la scena, identificare il luogo della vigilia per immaginare le vite di questi personaggi in attesa della catastrofe. Quando l’uragano Katrina distrusse New Orleans avevo letto la storia di questi uomini rimasti ad aspettarlo nel chiuso di un bar raccontandosi storie. La Dannata è un po’ quel bar, anche se nessuno ha scelto di rimanerci, e allo stesso tempo è la maledizione che scatena l’uragano». Gli chiedo dettagli tecnici sulle strutture armoniche e mi risponde come un guru: «Ho lavorato alle sonorità aperte e alle forme musicali circolari lasciando che la rotazione suggerisse il movimento e la trasformazione del movimento. Lasciando che la ruota del bastone guidasse i passi, non c’è niente di più imprevedibile di un attacco di bastone che apparentemente ruota su se stesso». Lo pungolo per provocarlo, ma vecchio ribelle con la maglietta di Johnny Cash ridacchia e non raccoglie le mie provocazioni: «Non so se questa musica sia un pugno nello stomaco, sicuramente è frutto di stomaco, sa di terra, di rito, di guarigione. Affonda le corde in quello spazio ancestrale che è la meraviglia».

Signore e signori, questo è Cesare Basile: il menestrello punk che ha scritto le più belle canzoni d’amore e tempesta, il musicista che ha suonato Nick Drake e i Gun Club, e l’artista che ha abbandonato la Siae per provare a essere libero: «Se ritengo che un sistema è sbagliato me ne tiro fuori, non ho mai creduto ai cambiamenti dall’interno, servono solo a godere dei privilegi di un sistema cercando di scrollarsene di dosso il fango…». Sconsigliato a chi fa la rivoluzione a Favignana, suggerito fortemente a chi crede ancora a mondo diverso e possibile. E a una Sicilia da amare (e odiare).