Sarà un caso, ma per tutto il giorno l’unico commento di un esponente del governo all’annuncio delle dimissioni di Raffaele Cantone da presidente dell’Anac è stato quello di Giulia Bongiorno. E la titolare della Pubblica amministrazione si è limitata a prendere atto della decisione presa dal magistrato simbolo della lotta alla corruzione: «L’Anac ha evidenziato che il tema della prevenzione è importante quanto quello della repressione. Ma detto questo – si è affrettata a precisare la ministra – alcune linee guida e regolamenti dell’Anac non riuscivano a coniugare l’esigenza della trasparenza con quella dell’efficienza e della rapidità».

Parole che suonano come un benservito e che non devono aver fatto piacere all’uomo che per cinque anni ha guidato l’Autorità nazionale anticorruzione fino a farne un modello citato all’estero come un esempio, dalla Commissione europea al Fondo monetario passando per organismi internazionali come l’Ocse, l’Osce e il Consiglio d’Europa. Ma che ieri ha invece deciso che è arrivato il momento di voltare pagina e di tornare a indossare la toga. Il motivo?Certamente gli scandali che hanno investito il Csm e di fronte ai quali – spiega Cantone in una lettera pubblicata sul sito dell’Anac – «la mia indole mi impedisce di restare uno spettatore passivo». Ma anche, e forse soprattutto, la constatazione che qualcosa si era rotto nel rapporto con il governo gialloverde. «Dopo oltre cinque anni sento che un ciclo si è definitivamente concluso anche per il manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo».

Un addio che non è certo maturato all’ultimo minuto. Nei giorni scorsi Cantone ne aveva parlato con il presidente della Repubblica Mattarella e con il premier Conte, oltre che con la stessa Bongiorno. Alcuni mesi fa aveva presentato al Csm la sua candidatura per un incarico direttivo presso tre uffici giudiziari, ma proprio le vicissitudini vissute dal Consiglio – è spiegato sempre nella lettera – hanno «comportato una dilazione dei tempi tale da rendere non più procrastinabile una decisione».

A voler guardare, i segni della rottura che si stava consumando c’erano tutti da tempo, frutto anche di alcuni provvedimenti del governo. Come il decreto Sbloccacantieri, in alcuni aspetti del quale Cantone vedeva un «rischio di corruzione» anche perché, alcuni anni dopo l’approvazione del Codice appalti, reintroduceva modifiche in un settore che invece«ha assoluto bisogno di stabilità e certezza delle regole e non di continui cambiamenti», come spiegò lo scorso mese di giugno nella relazione annuale tenuta a Montecitorio denunciando anche un ridimensionamento del ruolo dell’Anac. Ironia della sorte, nello stesso momento in cui lui parlava alla Camera, al Senato la maggioranza gialloverde approvava in via definitiva lo Sbloccantieri.

Duri i commenti dell’opposizione all’addio annunciato da Cantone. «Mi colpisce che l’Anac venga indebolita proprio adesso, chissà perché. E dire che e un tempo gridavano “Onestà”» scrive di Facebook Matteo Renzi, che nel 2014 da presidente del consiglio lo chiamò a risollevare le sorti dell’Autorità anticorruzione. Dello steso tenore il commento di Paolo Gentiloni: «Così l’anticorruzione è diventata un peso – scrive il presidente del Pd – e oggi Raffaele Cantone con le parole misurate di un uomo delle istituzioni, dice al governo: se volete ridimensionare o cancellare l’Anac fatelo senza di me».

A colpire è il silenzio del premier Conte e del ministro dell’Interno Salvini. Parlano invece, ma solo quando ormai è pomeriggio inoltrato, il vicepremier grillino Luigi Di Maio e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. «Con il presidente Cantone abbiano sempre lavorato benissimo, è stata una delle prime autority con cui ho lavorato, in particolare sull’Ilva di Taranto», dice il primo. «Con lui c’è sempre stato un dialogo costruttivo: alcuni suoi suggerimenti mi hanno consentito di migliorare la legge Spazzacorrotti», commenta il secondo. Parole che suonano come di circostanza e che difficilmente convinceranno Cantone a fare marcia indietro.