Interprete, compositrice, insegnante, scrittrice. Ada Montellanico è un fiume in piena di proposte e iniziative che hanno come comune denominatore la musica ma che si aprono anche alla politica, agli incontri, alla socialità. È da qualche giorno disponibile il suo nuovo disco inciso per Giotto /Egea Music su cd e digitale dal titolo Canto proibito, che ha presentato in una sala gremita dell’Auditorium parco della musica il 21 febbraio. Nell’album, l’artista romana rivisita un repertorio basato su arie del seicento, ricche di irriverenza, ironia e sensualità accentuandone l’estrema modernità. Non è nuova a esperimenti, ha interpretato (l’unica autorizzata dalla famiglia) testi inediti di Tenco (Danza di una ninfa, 2005) e si è tuffata nel repertorio della grande (e sottovalutata) Abbey Lincoln, per parlare di diritti civili (2017). In Canto proibito affronta composizioni degli autori più rappresentativi dell’epoca: Händel, Scarlatti, Caldara, Cesti, Carissimi, Cavalli, Barbara Strozzi e Francesca Caccini, rare compositrici di quei tempi. Come nel tributo alla Lincoln, Ada Montellanico sceglie di non utilizzare il pianoforte – e di concerto con il trombettista Giovanni Falzone (l’arrangiatore), ha lavorato con un ensemble ristretto composto da Filippo Vignato (trombone), Jacopo Ferrazza (contrabbasso), Ermanno Baron (batteria). In Canto Proibito troviamo anche un riferimento a «Opera Proibita», album del 2005 di Cecilia Bartoli, cantante molto amata dalla Montellanico, non solo per la sua statura artistica ma per essere una ricercatrice dalle molteplici sfaccettature. Un omaggio a lei, come in una condivisione di sentimento e di identità seppur con linguaggi differenti.

«Canto proibito» racconta un secolo complicato, durante il quale però la musica e le arti si aprono e si rinnovano…

È un periodo che mi ha sempre affascinato e dove la musica ha subito un cambiamento piuttosto importante: il passaggio dalla polifonia alla monodia. Ci sono arie cantate meravigliose che si prestano ad essere reinterpretate in maniera diversa, come può essere uno standard. Non è stato un percorso semplice, prima di entrare in studio (il disco è stato registrato alla Casa del jazz di Roma nel maggio 2023, ndr), ho voluto studiare quel periodo in maniera approfondita. Dal punto di vista storico e sociale è stato un secolo rivoluzionario. E poi ovviamente la musica: dal metafisico si ritorna all’uomo e quindi si parla di passioni, sentimenti.

Non dimentichiamo che nel corso del Seicento apre il primo grande teatro pubblico e le donne si affacciano sulla scena culturale.

Basti pensare a una figura come quella di Artemisia Gentileschi che ha il coraggio di portare avanti i propri talenti nonostante tutte le proibizioni. Non è un caso se ho scelto di eseguire nel disco un brano di Barbara Strozzi. Un periodo affascinante, in cui da una parte c’è lo stato pontificio che ovviamente agisce con grande repressione e dall’altra la Repubblica veneta che è invece il luogo di rifugio degli scienziati, dei grandi pensatori filosofi dei musicisti degli artisti. Un contesto contraddittorio, fatto di luci e ombre e la musica – come sempre – è il fil rouge che lega tutto.

Composizioni dove le liriche parlano di tormenti amorosi ma dove è sottintesa anche una certa carnalità.

Certo la parte musicale è predominante, ma cercavo anche un’attinenza nei testi che raccontasse il secolo. E poi questo è un repertorio che io ho affrontato da giovane, non c’era nessuna scuola di canto jazz e quindi studiavo canto classico: Scarlatti, Händel. Ecco, ora è come se fossi tornata indietro a recuperare queste perle della musica.

Le radici non si dimenticano, a un certo punto della vita ritornano. Come un cerchio che si chiude.

La musica colta attingeva molto anche dalla tradizione popolare. Io ho attraversato una lunghissima fase prima di arrivare al jazz in cui studiavo musicologia e interpretavo canti popolari.

La caratteristica di «Canto proibito» – già sperimentata in passato nel disco dedicato a Abbey Lincoln – è l’eliminazione del pianoforte a favore di arrangiamenti che mettono invece in risalto voce e i fiati.

Sono molto orgogliosa del gruppo e di questa mia idea di caratterizzarlo tra fiati e voce. Un esperimento, un’idea di suono che sentivo fortemente per questo progetto. Non volevo trasporre il barocco in chiave jazz e introdurre un pianoforte mi avrebbe portato necessariamente da un’altra parte, mi avrebbe costretto a una comparazione che potesse essere anche non filologicamente giusta. Ho dato delle indicazioni chiare a Giovanni: io amo la melodia perché la ritengo l’elemento portante di un brano. E poi mi piace lavorare sulle armonie, sulla ritmica. Ho sempre fatto questo anche misurandomi con il repertorio di Luigi Tenco. Insomma, la melodia la lascio perché è proprio l’identità di un brano. Il pianoforte avrebbe modificato l’armonia e in qualche modo «imbrigliato» la melodia. Abbiamo quindi lavorato sulla voce: il seicento è stato un’epoca di grande virtuosismo vocale e che invece insieme a Giovanni abbiamo preferito «modificare» attraverso degli special in sezione voce, tromba e trombone. È come dire: una sorta di traduzione senza fare il verso al barocco inglese. Una rielaborazione. Il pianoforte sarebbe stato, per me, troppo vincolante.

La sfida è sempre stata una costante della sua carriera: come ci si muove dal canto popolare al jazz?

Sono passata attraverso varie fasi: cantante ma anche strumentista – suonavo il tamburello. E poi è arrivato… John Coltrane e mi è risuonato qualcosa dentro che non pensavo di avere. Così ho iniziato proprio con il sax soprano per arrivare gradualmente al jazz. Ma in realtà è stata una prosecuzione del mio lavoro, perché comunque la radice popolare è storicamente presente nel jazz.

Le sue monografie discografiche non sono mai scontate, lei tende sempre a misurarsi con artisti fuori dai ranghi: Luigi Tenco e ancor più una grande performer e intellettuale come Abbey Lincoln.

A me piace sempre andare a cercare dei repertori inusuali, lo faccio anche come docente di canto jazz sì. Ovviamente insegno gli standard, quelli che devono conoscere, ma mi piace anche far conoscere agli studenti altri pezzi, perché io credo che ci sia un repertorio sconfinato. Io adoro Cecilia Bartoli anche perché è una grande ricercatrice di repertori. Nella musica classica spesso i cantanti lavorano sempre sugli stessi repertori, mentre invece c’è ancora tanto da esplorare.

Tornando al disco, oltre alla ricerca musicale lei racconta il talento e le difficoltà di donne compositrici nel Seicento. Stiamo vivendo tempi molto complicati, dove i diritti che pensavano acquisiti vengono messi in discussione. Anche la gente si sta rassegnando a questo stato di cose.

Siamo tutti finiti in una bolla chiamata realtà virtuale e i social. Siamo in questa sorta di piazza virtuale, dove ci sembra di intervenire ma in realtà si predica nel buio e si perde il senso della realtà. Ci hanno tolto quella che potrei definire come la ’vitalità del protestare’. Ecco, io penso che la funzione di noi artisti sia quella di stimolare la gente. Io credo molto in una ribellione sana che porti veramente a una trasformazione, che non si limiti a uno sfogo ma costruisca qualcosa di solido, vero.