La circostanza che conquista, lungo il percorso della mostra alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, è innanzitutto la solida architettura d’insieme, in accordo col rigore delle scelte espositive. Si tratta di notazioni di qualche rilevanza, perché contraddicono la difficoltà intrinseca agli spazi per le temporanee ricavati nell’ex noviziato di Sant’Ignazio, un dedalo di rampe e divisori collocati al -1 nell’istituzione attualmente diretta da Maria Luisa Pacelli.
La storia d’amore fra Canova e la città, ricostruita per cura di Alessio Costarelli, incardina invece il proprio sviluppo a un crescendo – assieme emotivo e intellettuale – d’inesorabile coerenza: così, l’accorta selezione dei pezzi aiuta gli ospiti a orientarsi in quegli ambienti. Una nota di merito, certo, va anche ai responsabili dell’allestimento, attribuito in catalogo allo studio INOUTArchitettura. Tuttavia, non si può non riconoscere come lo stesso legame stretto dallo scultore con Bologna offrisse, in partenza, una griglia narrativa di grande efficacia e di consequenzialità stringente; uno di quei ‘casi-studio’, insomma, che si costruiscono nel tempo, quasi in attesa di un narratore appassionato.
All’antefatto interlocutorio e caloroso – quello cioè delle prime visite e degli abboccamenti fra l’aristocrazia felsinea e la figura del giovane artista – seguì la celebrazione consapevole da parte dell’intellighenzia municipale, in un colloquio durevole ed elevato, fatto di reciproche cortesie, di mutue adulazioni e di scambi sempre più intensi. Le cordialità accademiche, prolungatesi per tutto il decennio in avvio del XIX secolo, avrebbero poi trovato conclusione in un vero e proprio trionfo, mentre sullo scenario europeo il dominio napoleonico cedeva alle spinte restauratrici del Congresso di Vienna. Nel 1815 Canova si sarebbe infatti recato a Parigi, come messo del pontefice Pio VII, per riconquistare all’Italia i tesori sottratti dal Bonaparte durante le campagne di conquista nello Stivale, ordinatamente inclusi nelle collezioni ‘enciclopediche’ del Louvre.
Durante questa missione, i capolavori provenienti dall’Emilia furono fra i principali assilli della rappresentanza diplomatica. Lo attestano le carte d’epoca – oggi commentate da Gian Piero Cammarota – ma soprattutto lo comprova un ricordo ‘personale’ di Antonio Amorini Bolognini, risalente al 1818: in un opuscolo pensato all’uopo, l’erudito rammenta come lo scultore fosse giunto nel capoluogo, assieme ai quadri restituiti, occupandosi in prima persona di verificarne il degrado e di predisporre i dipinti per una presentazione ufficiale alla popolazione commossa, quasi un omaggio al centro che, nello Stato pontificio assieme a Roma, aveva maggiormente subito le dolorose spoliazioni richieste dalle autorità transalpine.
Un’apoteosi bella e buona, cui naturalmente è dedicata la chiusa della mostra. L’esposizione dei capolavori rientrati di Francia venne predisposta in gran fretta nella navata della chiesa sconsacrata di Santo Spirito, «magnificamente apparata» per l’evento, e il valore ‘politico’ dell’operazione, la sua effimera funzione celebrativa, fa impallidire la nascita successiva di una pinacoteca pubblica, conseguenza diretta di quell’atto orgoglioso di riconquista e, più ambiguamente, della stessa ‘laicizzazione’ dei beni artistici suggerita dalla politica culturale della Francia rivoluzionaria.
In questo senso, si deve plaudire alla ricostruzione virtuale di quell’appuntamento storico – apertosi nella metà di gennaio 1816 – esibita alla pinacoteca in virtù di una collaborazione col Dipartimento di Architettura dell’Università. Pur nella consapevolezza di un qualche grado di arbitrarietà caratterizzante prodotti siffatti (convinzione peraltro condivisa dagli stessi ideatori del progetto, da Fabrizio Ivan Apollonio a Riccardo Foschi), essa si offre come un utile strumento, capace di arricchire le suggestioni suscitate dal testo dell’Amorini che della mostra allo Spirito Santo aveva fornito una relazione attenta, infusa di fiero sciovinismo.
Proprio di fronte alle immagini del filmato si coglie infatti appieno il senso legato all’iniziativa, rispecchiando nella messa in scena d’insieme i moventi campanilistici ad essa soggiacenti. Eloquente è, ad esempio, la distribuzione delle opere nell’abside, che appare verisimile nella visualizzazione 3D pensata per la pinacoteca. «In prospetto della porta maggiore» – e lo sapevamo – l’immensa pala di Guido Reni, un tempo nella Chiesa di Santa Maria della Pietà, con l’inconfondibile paesaggio urbano bolognese circondato dal coro di angioletti giocosi; ai lati, affrontatisi l’un l’altra e tuttavia invisibili dall’ingresso, la Pala Scarani di Perugino (già in San Giovanni in Monte) e la celestiale Cecilia di Raffaello, due ‘forastiere’ in fondo. Difficile, infatti, credere che le opere avessero una collocazione diversa da quella ‘a parete’ proposta nella ricostruzione: le immagini aiutano quindi a capire quanto la celebrazione ‘pro domo Bonaniae’ ispirata da Canova spingesse a obliterare, in una veduta d’insieme e per il primo colpo d’occhio, icone tanto celebri, cui lo stesso Amorini doveva rivolgere temperate parole d’elogio.
In fatto di riscoperte e nuovi pensieri, non meno importante risulta poi l’indagine che per l’occasione è stata condotta sulla gipsoteca delle Belle Arti, rimettendo in luce grazie a letture sinottiche con le testimonianze d’archivio una coppia di gessi riconducibili direttamente all’officina canoviana e alla generosa munificenza dello scultore. Secondo una consuetudine assai comune nell’operare dell’artista (si pensi ai casi delle Accademie di Firenze e di Perugia, per citare centri maggiori e minori dell’Italia neoclassica), anche Bologna si vide infatti omaggiare di ‘copie d’autore’ di celeberrime prove del suo scalpello. Vengono così per la prima volta valorizzate due derivazioni monumentali come la Testa di Papa Clemente XIII e la Maddalena penitente, creazioni che da oggi – accanto all’Amorino dei Musei Civici, di recente riscoperto da Antonella Mampieri – andranno ad arricchire la galleria ‘canoviana’ della città.