Cani marroni tra lotte e rivolte dei senza nome
SAGGI Un saggio di Peter Mason, tradotto per le edizioni VandA
SAGGI Un saggio di Peter Mason, tradotto per le edizioni VandA
Il caso del cane marrone, saggio di Peter Mason del 1997, è stato reso disponibile al pubblico italiano grazie al lavoro collettivo di un gruppo di attivist* coordinato da Barbara Balsamo e Silvia Molé (VandA, pp. 189, euro 15). Come recita il titolo, il libro racconta la storia della vita offesa di un cane in carne e ossa che diventa simbolo di rivolta sociale. Il «primo» cane, vivo ma già morto, entra in scena nel tardo pomeriggio del 2 febbraio 1903 nel teatro anatomico dello University College di Londra, per essere «sezionato al collo» al fine di illustrare il funzionamento delle ghiandole salivari. In aula vi sono Louise Lind-af-Hageby e Leisa Schartau, che denunciano l’accaduto a Stephen Coleridge: dopo «mezz’ora di ordalia», in cui si contorce per il dolore, il cane, che aveva sull’addome i segni di precedenti esperimenti e che non era stato adeguatamente anestetizzato, viene allontanato dall’aula per essere abbattuto. Coleridge, avvocato della National Anti-Vivisection Society, non esita a portare la vicenda alla conoscenza del grande pubblico ed è così trascinato in tribunale dal docente di fisiologia di cui aveva denunciato l’operato.
L’ESITO DEL PROCESSO è scontato: «la giuria impiegò appena venticinque minuti» per emettere «un verdetto unanime» di condanna per diffamazione nei confronti di Coleridge. Meno scontata, invece, è la capacità di Mason di restituirci il clima di un’epoca in cui l’interesse per la sofferenza degli animali va assumendo un’inedita valenza sociale e in cui, pur con tutte le sue contraddizioni tuttora irrisolte, comincia a muovere i primi passi quello che oggi chiamiamo «antispecismo».
Il «secondo» cane, morto ma ancora vivo, entra in scena alle 15.30 del 15 settembre del 1906 nel quartiere operaio di Battersea, «un’enclave gremita di salari da fame, disoccupazione, malnutrizione, malattie e ridotte aspettative di vita». Adesso ha le fattezze di una statua di bronzo alta 45 centimetri posta sopra «una base di lucido granito rosa». Il memoriale è completato da «una fontana di acqua potabile», «un abbeveratoio per cani» e da un’iscrizione della linguista Louisa Woodward che denuncia la sperimentazione animale.
SARÀ PROPRIO questa iscrizione da un lato a scatenare le proteste dell’establishment accademico e dall’altro a unire femministe, operai, animalisti, suffragette e socialisti che trasformeranno la statua del cane marrone in «un simbolo radicale di sfida contro l’élite dominante». La battaglia tra le due fazioni proseguirà per diversi anni tra accesi dibattiti pubblici, atti vandalici contro il memoriale, manifestazioni da parte degli studenti di medicina, arresti, processi, interrogazioni parlamentari, fino al 18 marzo del 1910, quando la statua verrà abbattuta a seguito di una delibera delle autorità locali. La figura del cane marrone fu in grado di aprire a domande sociali insoddisfatte capaci di portare alla formazione di un popolo controegemonico escluso. Se, come sosteneva Benjamin, il compito politico per eccellenza è quello di passare a contrappelo la storia per onorare la memoria dei senza nome, allora lo spettro del cane marrone si aggira ancora tra noi, reclamando quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
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