Canetti e Kafka, metamorfosi del potere
Giganti a confronto Entrambi colpevoli davanti alla grandezza di Felice Bauer: Elias Canetti, «Processi», da Adelphi
Giganti a confronto Entrambi colpevoli davanti alla grandezza di Felice Bauer: Elias Canetti, «Processi», da Adelphi
La promessa implicita nell’incontro di due autori geniali è la nascita di un capolavoro, ma il risultato è non di rado la rappresentazione di una battaglia. Elias Canetti ha condotto la sua lotta con Kafka per cinquant’anni, metà dei quali trascorsi soltanto a studiare il suo avversario. I segni superstiti di questo confronto fra giganti sono raccolti nel volume Processi Su Franz Kafka (Adelphi, pp. 367, € 23,00) fedele traduzione del libro apparso in Germania cinque anni fa per le cure di Susanne Lüdemann e Kristian Wachinger. Vi sono raccolte le moltissime note di lettura appuntate da Canetti a partire dal 1946 (rese in italiano da Ada Vigliani) insieme alla riedizione della storica traduzione di Renata Colorni del saggio sulle Lettere a Felice (L’altro Processo) e a due conferenze inedite, Proust – Kafka – Joyce del 1948, e Hebel e Kafka del 1980 (ancora nella traduzione di Vigliani). Non si tratta, ovviamente, di una silloge di studi separati. Il filo conduttore è il più canettiano immaginabile: il lento irretimento del lettore nella sfera della vita, della scrittura e del pensiero di un antagonista irraggiungibile e troppo grande per non diventare schiacciante, la cronaca di un conflitto di forze che è poi la ragione stessa di quell’irretimento. Il centro di tutto questo si trova, com’è inevitabile, nel saggio sulle Lettere a Felice e da qui conviene cominciare.
Canetti viene a conoscenza delle Lettere – come il resto del mondo – nel 1967, quando Jürgen Born e Erich Heller le pubblicano presso l’editore americano dell’opera di Kafka, Shocken, cui Felice Bauer, malata e in fin di vita, aveva infine deciso di venderle per potersi permettere cure altrimenti insostenibili. Fino a quel momento Canetti ha in fondo condiviso, pur criticandola, la sostanza della visione di Kafka che Max Brod ha per primo divulgato: l’immagine dello scrittore-santo, dell’anacoreta completamente dedito alla sua scrittura e alla letteratura come dovere esistenziale. Per i primi vent’anni del suo confronto con Kafka anche Canetti attribuisce allo scrittore una posizione eccezionale, quella dell’osservatore impotente, la condizione umana e sublime dell’estraneità voluta, ostinatamente ricercata, a tutti i conflitti di forza e all’esercizio del potere. Lungo tutti questi anni Canetti si percepisce come il soccombente, nel confronto con l’unico autore della sua epoca – così scrive alla fine del 1968 – di cui abbia vera considerazione. E a Kafka attribuisce la capacità innata di perseguire l’unica via possibile verso l’umanità: la via della passività, della spontanea riduzione a nulla, della sparizione dinanzi alla violenza. «Bisogna essere un verme come Kafka – scrive nel 1964 – per diventare un uomo» perché dinanzi ai potenti «ci tocca cercar rifugio dentro la terra».
Questa immagine, in fondo, convenzionale guida per anni Canetti nei suoi studi sull’opera di Kafka e lo porta a considerare il suo autore come il rappresentante ideale di un’umanità disarmata, liberata dalla tirannia della forza, del dominio. Su questo sfondo la lettura delle Lettere a Felice in un primo momento lo gela. Qui quello stesso Kafka gli si rivela come lo spietato carnefice di una donna a lui infinitamente inferiore e la reazione è violentissima: «devo constatare – scrive – che la spietatezza di Kafka nei confronti di Felice, si è trasferita su di me, ne sono stato contagiato, […] non provo per lui la minima compassione». Nel corpo a corpo di Canetti con quello che ormai giudica il suo alter ego si avvia allora un processo di ripensamento che gli appunti registrano con l’intensità di un romanzo. Chi conosca l’opera di Canetti saprà apprezzare la vivisezione delle emozioni che il saggio mette in scena: prima cerca di «salvare» ai propri stessi occhi Kafka leggendo, ancora una volta, l’episodio di Grete Bloch secondo i più ordinari stereotipi.
Grete è l’anti-Felice, una figura che prelude a quella di Milena, e Kafka cede alla sua superiore identità intellettuale. Poi, però, anche questa illusione si sgretola e allora, ancora una volta, Canetti si vale dello stereotipo della sofferenza: Felice è lo strumento dell’automortificazione kafkiana. Com’è ovvio, neanche questa ipotesi regge alla prova dei fatti e alla fine Canetti perviene a sé stesso e, finalmente, alla grandezza della sua interpretazione di Kafka. In alcune lettere allo scrittore e esperto di letteratura epistolare e diaristica, Rudolf Hartung, anch’esse riportate nel volume, si delinea l’idea che poi farà da guida all’Altro Processo: Kafka soffre su sé stesso la forma stessa del potere e lo traduce nelle diverse fasi della sua vicenda con Felice. «Non c’è nessuno scrittore che abbia raccontato il potere come lui, i suoi scritti ne racchiudono tutti gli aspetti corporei».
È una visione di Kafka, divenuta oggi canonica negli studi più seri, che nasce – ed è questo uno dei più interessanti aspetti ricostruibili attraverso il libro adelphiano – mentre a Parigi esplode il Sessantotto, e Canetti si trova nella capitale francese per un breve soggiorno. Le manifestazioni a cui assiste lo spingono perfino a pensare di dover revocare la sua opera maggiore, Massa e potere. Gli studenti in rivolta gli appaiono vittime: vittime di nomi – scrive Canetti – di cui credono di appropriarsi e da cui sono invece fagocitati. A differenza degli scrittori e intellettuali ebrei suoi contemporanei, che videro nel Sessantotto l’esplodere di un furore sociale da temere, Canetti si sforza di capire e arriva alla conclusione che l’esercizio della violenza e del potere può essere strumento delle vittime e assumere conformazioni fisiologiche e configurazioni psicologiche insolite e solo apparentemente assimilabili a quelle dei carnefici: sono queste le riflessioni che si intrecciano alla stesura del saggio su Kafka. Tra quelle pagine, le strategie di fuga, le mitologie negative (l’insignificanza, l’astio nei confronti dei bambini che gli impedisce di avere figli), la stessa tendenza alla negazione di sé stesso dello scrittore praghese diventano le armi del perdente, e, al tempo stesso, i contenuti di un’autoanalisi spietata che Kafka conduce mentre dà forma alla sua opera di distruzione del rapporto con Felice, e di Felice stessa.
Da questo punto di vista L’altro Processo costituisce in tutto e per tutto un capitolo fondamentale di quell’opera della vita che Canetti comincia a comporre con Autodafé e dispiega attraverso le pagine di Massa e Potere fino ai tre saggi raccolti in Potere e sopravvivenza, l’opera che più di ogni altra mostra affinità con il libro su Kafka. La riproposizione di questo volume composito ma inesauribile, la cui lettura richiede di considerare e insieme dimenticare il suo tema kafkiano, tanto il tema del potere torna a presentarsi in forme nuove e autonome, è un contributo essenziale alla conoscenza dell’opera, del pensiero e perfino del modo di lavorare di Canetti. E anche chi voglia trovarvi «solo» la storia del corpo a corpo di un genio con un altro può leggerlo come uno straordinario diario intellettuale, non privo di colpi di scena. Il quale lascia però aperto un interrogativo che non sembra aver sfiorato Canetti. Nel gioco di potere delle vittime, tutto il suo corpo a corpo con Kafka cancella quasi completamente Felice Bauer: cedendo, stavolta del tutto, ai pregiudizi, mette fra parentesi la figura di una donna straordinaria e trascura di osservare che Felice ha condotto anche lei, da vittima, la sua battaglia con il gigante. E che battaglia! Abbandonata al suo destino da Kafka ne conserva tutte le lettere e, ormai sposata a un altro uomo, quando Kafka è ancora un signor nessuno per la coscienza del mondo, occupando la gran parte di uno dei pochi bauli in cui ha rinchiuso le sue cose, le porta con sé durante la fuga in America, dove le custodisce per tutta la vita.
Solo alla fine, spinta dal bisogno accetta di separarsene, sapendo che quelle lettere inaugureranno un capitolo nuovo nella considerazione di colui che ormai, negli anni Sessanta, è diventato un fenomeno letterario di massa, mentre era stato un tempo, per lei, nient’altro che Franz. Nel suo scontro finale con il genio tiranno Felice ha sommerso il mito letterario sotto le pagine di un monumento di carta. Perché le vittime dei nomi non hanno altra arma possibile che restituire quei nomi alla carta di cui sono fatti e in questo modo riportare alla luce la loro fragile, residua forma umana.
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