Henry David Thoreau. Un classico americano. Chiunque, in giro per il mondo, scriva o voglia scrivere di natura, di boschi, di alberi e paesaggi, si ritrova a fare i conti con gli scritti di Thoreau. In Scandinavia, nei paesi baltici, a Singapore o a San Francisco, Thoreau è punto di riferimento ideale. Grazie alla sua continua fuga dalla piatta realtà quotidiana quanto a una prosa visionaria, incarna un eroe romantico che invece di pensare alla carriera si consegna a un magistero spirituale, a fare esperienza concreta della vita semplice che c’è là fuori. Oltre le case, oltre le strade, oltre i bisogni della vita in comune. C’è del poetico e c’è del botanico, c’è del politico e c’è dell’esistenziale nelle pagine di Walden ovvero Vita nei boschi, de I boschi del Meine, di Camminare.

IN UN MONDO di autori che camminano tutti e oramai scrivono – necessariamente – di sentieri e perlustrazioni, mentre altrove la politica viene affidata alle redini di persone scarsamente credibili, un classico da citare sul sicuro ci va, e così il nostro americano calza alla perfezione. Profetico quando occorre, minimalista ma anche epico quando serve. Per lungo tempo ha operato a suo vantaggio la retorica del suo solipsismo boschivo, perdurato due anni nella «cabin» sul piccolo lago di Walden (Walden Pond, non Walden Lake), ammantando la figura del giovane barbuto e irrobustendone il mito. Thoreau, l’uomo che volta le spalle all’umanità per ascoltare la voce di Madre Natura. Oggi di questa visione eroica rimane poco, per fortuna è stata sgretolata da un verità dai toni adeguatamente meno epici.

QUEL CHE PIÙ ci interessa e affascina è semmai la continuità fra il suo pensiero e quello del suo mentore, Ralph Waldo Emerson (1803-1882), uno dei massimi intellettuali del proprio tempo, oltreché poeta e figura di spicco del trascendentalismo che innervò la nuova letteratura nordamericana del secolo XIX. Credere in un’unità del creato fra le creature, non nella tradizionale distinzione, mette da una parte la grazia che spira negli umani toccati dalla fede di Dio e dalla parte opposta, la forza, la violenza, l’istintualità che guidano gli animali e i processi naturali. Il trascendentalismo travalicò quella divisione per dichiarare che anche nella più semplice passeggiata della domenica mattina, lungo un vialetto, in un modesto parco della periferia di Boston, quanto di Milano, esiste un certo grado di estasi e di mistica, di appagamento e di spiritualità. Il sole che riscalda il viso, il silenzio che ci avvolge, il rumore dei passi e il vociare delle altre persone intorno a noi. E a maggior ragione queste nostre antenne possono vibrare se ci allontaniamo, se ci lasciamo abbracciare dalla foresta, dalla montagna, dalla natura.
Chi cerca questo tipo di esperienze trova nella prosa di Thoreau ampie soddisfazioni, un vasto appagamento che viene tessuto dallo scrittore grazie a una prosa lirica, ricca e potente, capace di risuonare come un ammonimento biblico. Non c’è da stupirsene poiché la prima letteratura americana era tutta religiosa, e nelle università ci si forgiava sulle letture teologiche.
In questi ultimi vent’anni Thoreau è stato ampiamente rivisitato e ripubblicato. Non si contano le diverse edizioni del Walden, tradotto e ritradotto, così come di Camminare e di Disobbedienza civile. Appena sbocciati sugli scaffali delle librerie sono Una passeggiata d’inverno, nella traduzione di Massimo Scorsone, terzo testo, dopo Mirtilli e appunto Camminare, dedicato all’autore del Massachusetts nella Piccola Biblioteca di Lindau (pp. 52, euro 9). Poi il saggio Thoreau. Vivere una vita filosofica (pp. 107, euro 12, traduzione di Michele Zaffarano) dell’intellettuale francese Michel Onfray, già autore di Filosofia del viaggio ed Estetica del Polo Nord, per Ponte alle Grazie.

NEL PRIMO CAPITOLO si leggono frasi quali «Come può, un’epoca piena di uomini piccoli, leggere e comprendere ancora una riflessione sui grandi uomini?» E ancora: «Nella nostra epoca di democrazia si pensa che uguaglianza sia la stessa cosa di egualitarismo». Proseguendo con: «L’Ottocento troverà il suo grand’uomo nella figura di Napoleone». Poi: «Il più grande degli uomini è proprio chi non passa per tale agli occhi degli altri e attraversa la propria esistenza senza far rumore». Può capitare che il «filosofo di mestiere», quando si confronta con il pensiero e l’esempio di rilevanti figure del passato, finisca o per immedesimarsi, quale incarnazione attuale di un’eredità di esperienze, parole e idee, oppure, all’opposto, inizi una guerra fredda spietata e a senso unico. In questo caso, Onfray sembra ribadire che nella nostra epoca pochi, pochissimi, siano gli animi capaci di guardare alla solitudine esemplare di Thoreau, e guarda caso proprio il saggista francese lo è.

ONFRAY ILLUSTRA scelte e fatti della vita di Thoreau e ne analizza alcune opere centrali, si citano articoli, conferenze, incontri, imbastendo una minima biografia. Eppure, di tanto in tanto, Onfray sente l’esigenza di imperlare il testo di capolavori retorici e poetici non comuni. Per esempio: «Gli indiani più ignoranti sanno sempre molte più cose rispetto a uno qualsiasi dei più agguerriti filosofi europei». Oppure, quasi memorabile: «In effetti, noi non apparteniamo a noi stessi, viviamo come macchine e perdiamo tutta la nostra vita cercando di guadagnarcela e rimandandola sempre a domani». E trionfante laddove scrive: «Questa vita (ovvero l’esistenza filosofica alla Thoreau, fatta di pensieri e cammini – nota mia), così poco materiale o così poco materialistica ma così capace di far inceppare gli ingranaggi della macchina capitalistica, è una vita rivoluzionaria».
O forse è meglio tornare a centimetrare il mondo, senza pensarci troppo.