C’è un modo diverso per conoscere Hermann Hesse. Non solo quello dei libri che abbiamo letto, ma anche attraverso i suoi scritti più privati, quelli in cui racconta l’arte e l’amore per il viaggio. Il libro, appena uscito per Piano B edizioni, Camminare (12 euro), raccoglie, in poco più di 100 pagine accompagnate anche da poesie, i suoi pensieri sull’appartenere, sul condividere, su luoghi, sull’attraversare, sul fermarsi e cogliere l’unicità del posto. Proprio nelle prime pagine intitolate Sul Viaggiare, scritte nel 1904, troviamo un Hermann Hesse che trova «un’allettante opportunità per poter inveire di tutto cuore contro gli orrori del turismo moderno, contro l’insensata smania del viaggio (…) contro inglesi e berlinesi, contro la foresta Nera del Baden deturpata dal costo esorbitante, contro la gentaglia di città che vuole vivere in mezzo alle Alpi come a casa propria, contro i campi da tennis di Lucerna…». Uno sfogo severo di idee e opinioni, che presto però riuscirà a moderare e, dopo alcune scomode incomprensioni con altri viaggiatori, ci dice, «ho imparato a controllarmi». E subito spiega che, chi viaggia «dovrebbe comunque sapere ciò che fa e perché lo fa». Inutile elencare i perché, «perché in città fa troppo caldo, perché tutti (…) lo fanno, perché poi potrà parlarne e vantarsi, perché è la moda e perché dopo, a casa, si sentirà di nuovo così piacevolmente a posto». No, perché per Hesse viaggiare significa fermarsi, osservare, sentire, significa appartenere al luogo, e marchiare un posto con un ricordo che sarà sempre unico e indelebile, come quello del piccolo stagno nei giardini di Boboli con i suoi pesci rossi. (Trova infatti ridicole le frotte di turisti che seguono con ansia febbrile la loro tabella di marcia, senza riuscire a concedersi una semplice passeggiata o chiacchierata). Viaggiare significa dormire senza prenotazioni, senza alberghi, magari dormire all’aperto, o ospite di qualcuno che ha aperto la casa per noi e ci offre da magiare. È un viaggiatore convinto, sempre con una nostalgia per paesi già visitati o ancora da conoscere e da esplorare, a caccia di profumi, suoni, voci, di quelle inezie di incontri, e angoli apparentemente insensati del mondo che diventano spesso preziosi ricordi. Sì, ricordi, come su quel ponte che aveva già attraversato in guerra, quando la sua licenza stava per scadere e tornava al richiamo ufficale, nonostante fosse contro la guerra, contro i confini. Ci racconta la foresta Nera e gli alberi, come li incontra lui, come «grandi uomini solitari come Beethoven e Nietzsche». Di viaggi in treno, di canoniche, di inverni, di neve, di villaggi, di una fattoria. Anche di una pozzanghera che lui si ricorderà. «Chi non è capace di far proprio alcun paesaggio, chi non sa entusiasmarsi per alcun paese straniero, chi non proverà, dopo, una sorta di nostalgia per una terra toccata una volta di sfuggita, (…) è un individuo privo di interiorità e (…) non è superiore a colui che (…) è incapace di comprendere, trattare e amare altri esseri umani».