C’è uno scrittore che da anni parla agli alberi, ma soprattutto li ascolta, s’inforesta, come definisce questo spaesamento, e rinnova l’animistico e antico rapporto degli uomini con la natura del bosco. Uno che è convinto, come ha scritto in un verso, che «ogni poeta è destinato a farsi albero». Tiziano Fratus, l’autore di Giona delle sequoie (Bompiani, pp. 320, euro 22), e prima Il bosco è un mondo (Einaudi) e Il libro delle foreste scolpite (Laterza), chiama questa scienza empirica che pratica come disciplina dello spirito «dendrosofia», cioè «l’insieme di conoscenze, esperienze, meditazioni, cammini e ricerca di racconti che amalgamano storia naturale e storia umana»; e questo è il senso profondo del suo ultimo libro, un viaggio che l’autore ha fatto nei parchi californiani nel 2013, il quale ha dato vita a sette racconti dal vero con il titolo «Fra i giganti del Nordamerica», ospitati in precedenza dal quotidiano La Stampa.

TACCUINO ALLA MANO, passo svelto e sensi scoperti, Fratus va nel continente delle sequoie fra i giganti rossi, ci restituisce attraverso una serie di reportage saggistici, più riflessivi che narrativi, pieni di dati e date, cronologie, epoche, un sedimentato eccentrico che incrocia geografia profonda, letteratura, storia sociale, pensiero filosofico, e molto altro. Mai come oggi occuparsi di foreste e di natura è un forte atto politico, ricordarci che nel villaggio globale, nelle città metropolitane, comunque in quelle urbanizzate, sconvolte dai rumori di fondo, negli immediati dintorni esiste il silenzio della natura, le «cose viventi», ci sono «rifugi per curare l’anima», intanto, o per salvare un’idea di mondo diversa da quella distruttrice e predatoria del capitalismo selvaggio su scala planetaria, che sfrutta ugualmente suolo e persone.
La vita virtuale sta progressivamente cancellando quella naturale, sta cancellando l’attimo, lo spasmo, l’afflato poetico, come reclama un altro autore che ha riscoperto paesi e paesaggi, microcosmi abbandonati, minuscoli e lirici borghi occultati, calanchi vertiginosi, Franco Arminio, inventore della Paesologia, «una disciplina fondata sulla terra e sulla carne», che Fratus cita come compagno di viaggio, autore di un libro di poesie dal titolo emblematico, Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere).

Il libro di Fratus è scientifico e narrativo, filosofico e poetico, un ibrido che mescola storie e cultura, le quali s’incontrano nell’attimo di un attraversamento quasi mistico, nella dimensione panica del viaggio e delle sue illuminazioni, dentro il tempo di un’esplorazione e di una meditazione.
In California, a Big Sur, Humboldt County, Jedediah Smith in Sierra Nevada, da Calaveras a Yosemite, da Mariposa alla Giant Forest, dal General Grant Grove a Montain Home, l’autore insegue l’idea dell’albero come forma compiuta ed armonica di nature e venature, e di antica, struggente bellezza. L’albero della conoscenza, per eccellenza simbolo della vita, del tempo e del passare delle stagioni. «Ogni albero è la dimora segreta di mille creature appariscenti o sconosciute, sorprendenti o sfuggenti, in quella rete fittissima di rapporti che forma le fondamenta e la vitalità stessa dell’equilibrio ecologico», come scriveva Jean Giono – uno degli antenati di Fratus insieme a Henry David Thoreau – autore della favola ecologica L’uomo che piantava gli alberi, un libro di sorprendente forza narrativa. I giganti, le sequoie monumentali, che l’autore chiama «eden verticali, alberi maestosi, antiche foreste incernierate in silenzi preistorici», possono raggiungere anche 115 metri di altezza e vivere fino a 3000 anni, la più grande per volume del pianeta si chiama General Sherman Tree (rinominata Karl Marx da tre membri di una comunità di socialisti utopisti) che incontra in Giant Forest.

QUANDO FRATUS raggiunge la base del Mark Twain Tree, ciò che resta della sequoia dedicata al grande scrittore americano, le sussurra: «No, cara mia, non sei morta, non ancora. Non avere paura». E davanti al Mother of the Forest, il più alto albero al mondo a nord di Santa Cruz, guardando le fessure che ogni volta rivelano un vuoto, in quell’atmosfera zen, aspetta, «per una frazione di pensiero, di intravedere la nuca di un monaco seduto in meditazione». Al Rockefeller Forest, scrive: «meditando in questo bosco sono stato colpito da un sentimento forte di commozione. Nel buio delle acque del ruscello che vibravano nel mio corpo ho percepito un improvviso attaccamento per ciascuno degli alberi che si innalzavano sopra la mia testa». A Lost Grove all’Homo Radix Sequoiarum – come in modo semiserio si definisce – gli viene voglia di pregare. Mentre viaggia e racconta, dentro un’onda emotiva, l’autore svela anche frammenti sommersi di un romanzo famigliare, la trama segreta di un dolore intimo che lo ha spinto nei boschi, la «perdita» di una madre che nella testa sente le voci maligne di gente cattiva, «a cui si sommavano, drammaticamente, le concrete difficoltà di comunicazione fra un figlio e suo padre», che di mestiere, guarda caso, faceva il falegname. Ma questo libro, come avverte l’autore, è anche, e soprattutto, «un’indagine sulla spiritualità che ha abitato taluni uomini, spesso solitari, avventurieri, cacciatori, esploratori, naturalisti, compresi coloro che hanno attraversato il bosco per sopravvivere alla miseria, per conquistarsi alla natura, pregando e lenendo le ferite che la vita aveva inciso nei corpi e nell’anima».

COME JAMES VOLVERTON il pastore di pecore, ex soldato dell’esercito confederato nella guerra civile, IX reggimento Cavalleria indiana, Galen Clark, arrivato sulle montagne della Sierra per morire, il fotografo pioniere Ansel Adams, il tagliatore di legna Walter Fry, morso dai rimorsi dopo aver abbattuto una sequoia matura, l’indimenticabile Minnie Stoddard Lilley, maestra elementare, che va a vivere in una cabin, una casetta nel bosco, per salvare un pezzo di foresta, tra gli altri. Sono persone nella vita quotidiana ma anche personaggi minori della Storia e di un’epica, come è forte la presenza di scrittori che fanno l’immaginario di questi luoghi. Da Walt Withman del Canto della Sequoia, alle presenze di Jack Kerouac ed Henry Miller, che a Big Sur hanno vissuto e scritto, Gary Snyder e il più volte citato Mark Twain.
Come Giona, il profeta dell’Antico testamento che attraversa il ventre della balena, Tiziano Fratus in questo libro erratico si mette in cammino, recupera una tensione antica, si avvicina rabdomanticamente alla Madre Natura, racconta e condivide il tempo, lo spazio, respira l’aria, l’ossigeno che sprigionano gli alberi monumentali che spingono da secoli le proprie radici al centro della terra; in questo libro che «si apre al racconto delle acque, al defluire delle linfe, al pigolio mattutino degli uccelli, al comporsi dei cinabro e dei magenta al tramonto; si lascia invadere dal sussurro possente del cielo». E fa proprio il monito di uno dei santi Padri della chiesa: «Troverai più nei boschi che nei libri».