Ad una settimana dall’inizio della cessazione delle ostilità in Siria, c’è movimento nel nord del paese. Lo denuncia la tv russa Rt: le telecamere guidate dalla reporter Lizzie Phelan si trovano a poca distanza dal valico di Bab al-Salama tra Siria e Turchia. Il confine si vede con chiarezza, così come la bandiera turca che sventola al di là. E si vede anche una lunga fila di camion che attraversa il valico, ermeticamente chiuso dalle autorità turche al passaggio dei rifugiati siriani in fuga da Aleppo.

I camion passano Bab al-Salama, entrano in Siria e proseguono verso un villaggio in mano ad al-Nusra. Qui i qaedisti hanno un campo di addestramento, dicono i combattenti kurdi che accompagnano la troupe. Le bandiere nere sventolano tra gli arbusti. Intanto, in territorio turco, veicoli militari di Ankara pattugliano la frontiera a un km dai camion. Per i kurdi del Pyd la complicità è palese: «La Turchia dice di voler creare una coalizione anti-terrorismo – dice Abdu Khalil, capo delle Ypg ad Afrin – Ma allora non dovrebbe aprire i propri confini ad al-Nusra».

Così si lascia libertà di manovra ad uno dei due gruppi considerati internazionalmente terroristici. Eppure l’attenzione di molti attori resta focalizzata solo sull’Isis, quando il braccio siriano di al Qaeda rappresenta potenzialmente un pericolo maggiore perché capace di radicarsi nel territorio con alleanze strategiche che spesso coinvolgono anche i ribelli moderati. Non è un caso che nei giorni in cui si definiva la tregua unità dell’Esercito Libero protestassero per l’esclusione di al-Nusra.

Il cessate il fuoco, intanto, pare reggere nonostante violazioni registrate da entrambi i fronti: in molte aree i civili respirano per la diminuzione degli scontri che permette la lenta consegna degli aiuti alle zone assediate. L’ottimismo prevale, aprendo al negoziato che dovrebbe partire mercoledì a Ginevra. Ma non mancano i dubbi: ieri Riad Hijab, leader della federazione delle opposizioni Hnc, ha detto che il periodo «non è adatto» alla ripresa del dialogo. Troppo presto.

Un ruolo fondamentale in questo senso lo svolge la Turchia che, sebbene affermi di aver interrotto i raid contro le postazioni kurdo-siriane, è accusata dalle Ypg di mantenere intatto il sostegno agli islamisti. Ankara sa di dover sfruttare il silenzio mondiale sulla campagna anti-kurda che porta avanti da luglio, nel nord della Siria e nel sud della Turchia. Ieri si sono registrate nuove violenze: un’autobomba è esplosa a Nusaybin, uccidendo due poliziotti e ferendone 33. Ankara indica nel Pkk il responsabile dell’attacco, seguito da scontri a fuoco tra polizia e combattenti.

Il sud-est resta terra di conflitto e a poco servono le promesse: ieri il premier Davutoglu ha ribadito l’intenzione di ricostruire le zone distrutte dalle azioni militari. Si partirebbe oggi, a Silopi. Ma la comunità kurda teme che la campagna non sia finita e che la repressione delle proprie istanze proseguirà. Una convinzione figlia della più ampia strategia della tensione imposta dal partito del presidente Erdogan, Akp, che colpisce i kurdi come colpisce le voci critiche.

Sono tante le vittime della censura di Stato e della repressione violenta. Ieri il Ministero della Giustizia ha presentato la richiesta di sospensione dell’immunità per 5 parlamentari dell’Hdp, il partito di opposizione pro-kurdo. Tra loro il leader Demirtas. Su di loro pesano accuse di sostegno ad organizzazioni terroristiche e il governo preme per poterli perseguire liberandosi dai lacci delle tutele parlamentari.

Nelle stesse ore Erdogan tornava sulla sentenza della Corte Costituzionale che ha scarcerato i due giornalisti Dundar e Gul, arrivando a definirla una violazione della Costituzione: «Qui c’è una violazione della carta costituzionale, ma non sono io che l’ho violata. Sono stati coloro che prendono le decisioni dentro l’Alta Corte».

La stampa è costantemente nel mirino: ieri la corte penale di Istanbul ha ordinato la chiusura del quotidiano Zaman, media indipendente di sinistra, per poi commissariarlo: ora è sotto il controllo dello Stato. Immediata è scattata la protesta di centinaia di giornalisti e cittadini di fronte alla sede del giornale: «Sono i giorni più bui e cupi per la libertà di stampa», scriveva ieri la direzione di Zaman. L’obiettivo governativo è il Feza Media Group, che include anche le agenzie stampa Today’s Zaman e Cihan e che è legato al movimento dell’oppositore in auto-esilio Gulen. Per l’Akp “organizzazione terroristica”.