«Esserci o non esserci» non è più solo un dilemma da social media, ma anche quello di una Gran Bretagna profondamente divisa quanto alla propria permanenza nell’Unione Europea. Tanto che perfino Donald Tusk, il presidente del consiglio d’Europa, ha scomodato Shakespeare citando l’Amleto nella lettera d’accompagnamento alla bozza di accordo con cui David Cameron vorrebbe sventare l’uscita del paese dall’Unione in un epocale referendum.

La saga è ben nota. Cameron ha dovuto concedere questo referendum sulla permanenza del paese nell’Ue per placare quanti alla sua destra, nel partito e fuori, rischiavano di destabilizzarne troppo la leadership. L’Europa è da sempre causa di guerre fratricide tra i conservatori e i loro leader (Thatcher compresa) e concedere questo referendum sperando poi che si concluda con la vittoria di chi nell’Ue vuole restare era la pezza migliore che il primo ministro potesse metterci.

Ma perché ciò accada Cameron deve avere in tasca l’esito – per lui positivo – dell’estesa rinegoziazione dei rapporti che regolano questa permanenza e indire il referendum sulla scia politica di questa positività. A tal fine si è lanciato già mesi orsono in una ridda di visite ufficiali per perorare la propria causa, un’offensiva diplomatica culminata con la visita di lunedì di Donald Tusk a Downing Street, cui ha fatto immediatamente seguito la pubblicazione della bozza di intesa da parte dell’Ue.

Una bozza che però non pare affatto garantire su due piedi i risultati che servono al premier per fissare la consultazione il prossimo 23 giugno e vincerla, soprattutto riguardo i quattro punti sui quali insistono i suoi desiderata, che sono, in ordine di urgenza: la gestione del flusso migratorio, la tutela economica della City, la competizione economica e la sovranità politica. Il primo è naturalmente l’immigrazione dall’interno dell’Unione, che la stampa di destra chiama spregiativamente «turismo dei sussidi». Cameron voleva bandire i migranti europei dal richiedere, ottenere e poi spedire alle proprie famiglie in madrepatria sussidi e assegni familiari per i primi quattro anni di permanenza nel Regno Unito. La replica di Tusk è un eufemistico freno «d’emergenza» sui sussidi a chi ha un impiego fino a quattro anni, laddove uno degli stati membri ne faccia richiesta, ma la decisione ultima se concederlo o meno rimarrebbe all’Ue. Inoltre, più a lungo detti migranti risiedono nel paese, più si concretizza la possibilità che tale divieto sia loro ritirato. Insomma, il freno sarebbe sì, a Londra, ma la mano che lo tira resta a Bruxelles.

Sulla tutela delle operazioni della City, il documento di Tusk viene incontro a Cameron specificando chiaramente che non tutti i paesi membri hanno adottato l’Euro e che i loro contribuenti non possono esser coinvolti in operazioni di salvataggio dell’Eurozona. C’è un contentino anche per il classico tarlo ideologico dei Tories, che vedono ovunque gli odiosi lacci e lacciuoli statali frenare l’impetuosa verve imprenditoriale dei privati cittadini: si cercherà di diminuire la burocrazia e favorire così la competitività. Quanto alla sovranità del paese, insidiata agli occhi dei guardiani dell’indipendenza da alcuni verdetti giuridici della Corte europea: non è certo in discussione, la bozza attesta legalmente che la Gran Bretagna non deve attenersi a un’ulteriore integrazione politica e che la frase dei trattati europei che fa riferimento a «un’unione sempre più stretta», non potrà essere utilizzata per intensificare l’integrazione, anche se si resta sul vago circa l’inserimento di tale specifica nei trattati stessi.

Mentre le reazioni della stampa euroscettica sono prevedibilmente sprezzanti – Farage ha definito «patetica» la bozza – per Cameron ricomincia il tour diplomatico delle sette chiese, con visite in Polonia (paese principale esportatore di manodopera qualificata in Uk dove le sue misure anti-immigrazione difficilmente incontreranno favore) e la Danimarca. Deve trovare appoggio al documento, che sarà votato il 18-19 febbraio prossimi. Se lo otterrà, sarà via libera al referendum in giugno, al quale il Labour di Corbyn ha già dato il suo via libera. Ma se questo dovesse slittare a settembre, dopo una probabile replica delle crisi umanitarie della scorsa estate, sarà dura arguire a favore della permanenza.