«È un dialogo non semplice» scrive Luigi Di Maio rivolto agli elettori dei 5 Stelle che assistono alle manovre del Movimento per la conquista delle presidenze delle camere. Della camera, perché è Montecitorio il primo obiettivo di Di Maio, accanto a quello di non apparire troppo manovriero e politicista per un’audience abituata a detestare questo genere di trattative. Da qui il ricorso quotidiano alle informative sui social: un giorno il «capo» politico dei 5 stelle racconta la telefonata con Salvini, un altro i due capigruppo riferiscono sugli incontri con i rappresentanti degli altri partiti, ieri di nuovo il «capo» spiega che, in pratica, non c’è nessun passo in avanti. E sempre si auto elogiano per «la massima trasparenze», il «racconto passo passo». Ma il negoziato non fa alcun passo e la trasparenza è sul nulla.

È un bel ripetere, infatti, che si cerca il dialogo per individuare «figure di garanzia», l’intenzione dei «due vincitori» (come da riconoscimento reciproco) 5 Stelle e Lega è chiaramente quella di prendere uno la camera e l’altra il senato. Mossa che complicherebbe tremendamente la ricerca di un’alleanza per il governo (all’intesa esclusiva dei «due vincitori» o dei «due populismi» nessuno dà credito) e che romperebbe definitivamente il centrodestra e le speranze di Salvini di diventarne il leader riconosciuto.

Ma il governo in questo momento appare quasi un miraggio e l’ispirazione di grillini e leghisti non è molto distante dall’«intanto prendiamo, poi si vedrà». Messa in termini un po’ più politici, la conquista dei due posti chiave del parlamento consentirebbe a Salvini e Di Maio la presa su una legislatura che potrebbe durare poco e soprattutto essere dedicata principalmente alla ennesima riscrittura delle regole elettorali. In questa chiave sarebbe persino logico che alla presidenza della camera si sedesse lo stesso Di Maio, dovendo riconoscere che non ci sono i numeri per guidare in prima persona il governo. Ma è un azzardo con il quale il «capo» dei 5 Stelle rischierebbe di complicare la sua tranquilla navigazione di leader del primo partito, dunque il «capo» ha incaricato la capogruppo Grillo di smentire anche solo il sospetto.

Gli altri nomi grillini per la carica di presidente della camera restano quelli circolati in questi giorni, il fedelissimo di Di Maio Fraccaro e la new entry Carelli, che ha lo svantaggio di essere alla prima legislatura e il vantaggio di non essere visto come un pericolo dagli altri gruppi parlamentari. Al senato viceversa per la Lega c’è solo Calderoli, un po’ ingombrante per biografia ma anche conoscitore come pochi della macchina del palazzo e generalmente stimato per la sua capacità di condurre i lavori parlamentari. Anche se non sono questi gli argomenti decisivi per far passare una candidatura nei voti segreti.

Le votazioni cominceranno in parallelo venerdì 23 al mattino, il senato parte alle 10.30 con mezz’ora di anticipo sulla camera e molto probabilmente concluderà un giorno prima di Montecitorio – è stato così per tre volte nelle ultime cinque elezioni – perché alla quarta votazione (sabato) sarà eletto in ogni caso il candidato che prenderà il maggior numero di voti – in teoria se il centrodestra restasse unito potrebbe persino fare da solo. Alla camera invece dalla quarta votazione serva la maggioranza assoluta dei partecipanti al voto, vale a dire – a meno di imprevedibili fughe dall’aula – i Cinque stelle con il Pd oppure con la Lega anche senza Forza Italia. Ed ecco perché la partita dell’elezione dei presidenti sta stressando soprattutto il centrodestra.

Salvini si muove come leader di tutta la coalizione – lo ripete ogni giorno, anche ieri – Forza Italia non intende regalargli la patente. Ieri è uscito allo scoperto il capogruppo dei deputati berlusconiani Brunetta: «È solo il leader della Lega, non sta né in cielo né in terra che Salvini ottenga sia la candidatura alla premiership per lui che la guida del senato». L’avvertimento è pesante, perché i numeri di grillini e leghisti da soli al senato sono assai stretti: basterebbe la defezione di qualche leghista più vicino a Forza Italia (area Maroni) per affondare i piani di Salvini nel voto segreto. Forza Italia per palazzo Madama ha il suo candidato alternativo, Paolo Romani, che non è certo una figura ostile alla Lega per storia e provenienza geografica. Per eleggerlo i berlusconiani guardano al Pd, cercando un anticipo delle «larghe intese» bonsai che sole potrebbero emarginare lo scalpitante alleato leghista. E ovviamente i berlusconiani trovano ascolto in quella parte del Pd che tifa per il coinvolgimento del partito nelle trattative per il prossimo governo. Presentando questa disponibilità come volontà di aiutare il presidente Mattarella, nella ricerca di una soluzione per il governo che oggi è non solo difficile, ma anche lontana.