È solo un rinvio, ma è anche il primo accordo firmato dalla nuova maggioranza M5S-Pd-Leu in conferenza dei capigruppo alla camera. Il voto finale sulla riforma costituzionale che taglia di quasi il 40% i parlamentari (da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori) non ci sarà a settembre, come promesso più volte dai grillini, e neppure «nel primo calendario utile» (refrain di Di Maio), ma al più presto a ottobre. Mese in cui il calendario di Montecitorio dovrebbe essere abbastanza sgombro, visto che la legge di bilancio quest’anno partirà dal senato. Ieri mattina i deputati capigruppo hanno preso atto che il governo non è ancora pienamente formato – mancano i sottosegretari e dovrebbe provvedervi oggi il Consiglio dei ministri – e hanno rinviato alla fine del mese la formazione del programma dei lavori dell’aula. Così da lasciare margini alla trattativa appena cominciata tra le forze della maggioranza.

L’intesa è che accanto all’ultimo sì alla riforma bandiera dei 5 Stelle – che costerà al Pd una conversione in extremis, avendo il partito votato contro nei tre precedenti passaggi parlamentari – andrà avanti un pacchetto con «le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica» (così il programma al punto 10). Che poi significa la modifica dei regolamenti di senato e camera, una nuova legge elettorale proporzionale e un altro disegno di legge costituzionale con dentro le richieste del Pd per la revisione del bicameralismo paritario (si discute della partecipazione dei presidenti di regione ad alcune votazioni in senato e dell’introduzione della sfiducia costruttiva). E oltre a tutto questo una riforma costituzionale più semplice, che è già stata approvata in prima lettura alla camera a fine luglio: l’estensione ai diciottenni dell’elettorato attivo per il senato (oggi previsto a 21 anni). Anzi, è proprio questo più piccolo disegno di legge che potrebbe fare da «zeppa» per dare il tempo al pacchetto più complessivo di riforme di andare avanti e assicurare – almeno un po’ – quella «contestualità» nelle riforme che è la parola chiave dell’accordo tra 5 Stelle, Pd e Leu.

Si tratta di un disegno di legge costituzionale di un solo, breve, articolo, ora all’esame della prima commissione del senato. Prima dell’estate l’intenzione generale era quella di ampliarlo, abbassando anche l’elettorato passivo a 25 anni, come alla camera. In caso di modifica dovrebbe tornare a Montecitorio, ma resterebbe l’unico «treno» utile per condurre a destinazione un altro disegno di legge costituzionale entro 4-5 mesi dall’approvazione del taglio dei parlamentari. È previsto infatti che nel caso il presidente della Repubblica si trovi a indire un referendum confermativo di una riforma costituzionale, e per il taglio dei parlamentari questo potrebbe avvenire intorno alla fine di marzo, e sia stato nel frattempo approvata un’altra modifica costituzionale (in ipotesi il voto ai diciottenni), il referendum possa essere rinviato fino a otto mesi più avanti. Si arriverebbe così a dicembre dell’anno prossimo. Ci sarebbe tempo, allora, per chiudere anche con la riforma del bicameralismo e portare tutto assieme al giudizio dei cittadini in un unico referendum day. E ci sarebbe soprattutto tempo per le forze di maggioranza di raggiungere un accordo sulla nuova legge elettorale, da approvare in conclusione di legislatura.

Il piano è un po’ tortuoso e soprattutto un filo troppo ottimista, visto che sui tempi anche della più facile riforma costituzionale non conviene mai scommettere (serve comunque la maggioranza assoluta che al senato M5S-Pd e Leu da soli non hanno). Eppure non ci sono alternative per tenere insieme l’intenzione dei grillini di portare a casa il taglio dei parlamentari al più presto e le richieste di «garanzie» del Pd. Che sono soprattutto garanzie sulla durata della legislatura. Infine non è proprio in discesa neanche la strada verso il ritorno al proporzionale. Dal punto di vista tecnico è una riforma semplicissima, basta infatti togliere i collegi uninominali dal Rosatellum. Appena un po’ di lavoro in più servirebbe per alzare la soglia di sbarramento: adesso è al 3% e potrebbe salire al 4 o 5% (anche se le soglie implicite provocate dal taglio dei parlamentari, al senato, sarebbero in ogni caso più alte). Il punto è che nel Pd si stanno facendo sentire i fan del maggioritario, in testa Prodi. «Il paese si regge solo nella continuità che può dare il maggioritario», ha ripetuto ancora ieri il professore. E Zingaretti ha tirato il freno: «Non è vero che il maggioritario garantisce stabilità, ma è una grande questione e ci sarà tempo per discutere. Non ho la soluzione finale, non c’è nessuna decisione presa. Si deve aprire una discussione». E così in una riunione di direzione, magari anche in un seminario, il Pd proverà a non dividersi troppo. O almeno non troppo in anticipo.