Per dirla con i mediologi, il tema dell’informazione è entrato nell’agenda setting della Camera dei deputati. La seduta pomeridiana di ieri è stata dedicata a mozioni su un argomento spesso negletto e rimosso.

Il merito va dato al gruppo di Alleanza Versi-Sinistra italiana e segnatamente alla deputata Elisabetta Piccolotti, prima firmataria del testo in materia depositato lo scorso 29 gennaio. E quel dispositivo, a mo’ di positiva emulazione, è stato seguito da omologhi documenti dei vari gruppi. In verità, una lettura non superficiale dei variegati contributi ci segnala che, al di là della buona educazione del dibattito e dell’atteggiamento piuttosto difensivo della maggioranza nelle sue articolazioni, le differenze sono molte. Presi in contropiede, i firmatari delle anime governative hanno redatto articolati dalla lettura talvolta faticosa, essendo di sovente in bilico tra dichiarazioni di principio e detriti di posizioni reazionarie dure a svanire malgrado la copiosa normativa europea: innanzitutto il recente European Freedom Act, come pure i punti salienti del Digital services Act e del Digital Markets Act, una spanna più avanti dell’armamentario legislativo e regolamentare italiano.

Quest’ultimo si regge ancora sulla riforma dell’editoria del 1981 (il retaggio migliore), sul Testo Unico della radiodiffusione del 2005 siglato da Maurizio Gasparri, sulla perigliosa leggina in merito alla Rai imposta da Matteo Renzi nel Natale del 2015 con un bel regalo al potere esecutivo sulla gestione del servizio pubblico, raccolto con gioia da Palazzo Chigi.

Le tracce delle culture autoritarie palesi o sottese si trovano nel modo farisaico e salomonico di affrontare lo spinoso nodo delle querele temerarie, delle intercettazioni e del loro utilizzo per garantire la trasparenza verso cittadine e cittadini, nell’annacquamento della pur conclamata urgenza di porre mano alla cosiddetta governance del servizio pubblico.

Paradossalmente, l’intervento di maggiore polemica è stato svolto da un parlamentare di altro segno, Roberto Giachetti, che ha tra le sue virtù quella di seguire come pochi la questione delle carceri, ma sembra talvolta impigliato in un garantismo astratto. Ovviamente, guai a toccare – nel mentre lo si difende- l’articolo 21 della Costituzione, che esige il rispetto per chi la pensa in modo diverso. Tuttavia, è un peccato.

Torniamo alla mozione Piccolotti, che è stata la scintilla della discussione, tanto che persino governo e maggioranza (in aula il sottosegretario leghista Ostellari) ne hanno accolto alcuni pezzi. Non i paragrafi di impatto politico di maggiore operatività, naturalmente. Ad esempio, il riferimento alla Rai; la richiesta di introdurre la tutela delle fonti pure per i precari e freelance, nonché di affrontare finalmente il gender gap.
Bocciati gli elementi considerati eversivi di 5Stelle ed Azione (efficace Valentina Grippo, che ha preso le distanze da Italia Viva). Comunque, il merito della mozione sta nell’aver sintetizzato con cura e precisione le principali considerazioni emerse negli ultimi anni nel confronto con e tra le associazioni impegnate per un’altra società dell’informazione: da Articolo21, alla ReteNoBavaglio, a MoveOn, a Libera, a Amnesty International, e alla Via Maestra avviata dalla Cgil.

Insomma, c’è materiale per un’opera di riforme e di conflitti, in grado di rimettere all’ordine del giorno il diritto dei diritti, come lo chiamava Stefano Rodotà. Il limite interno della discussione di ieri stava nel suo eccesso analogico, mentre algoritmi e intelligenza artificiale impongono un cambio di passo.

Però, senza chiarirsi sui fondamentali e senza alleanze adeguate nei corpi sociali non è possibile frenare lo strapotere degli oligarchi della rete.
Se è un inizio, dunque, ben venga. Ma il bello (e il brutto) arriva ora. Estote parati.

Nel suo intervento Elisabetta Piccolotti ha osato nominare Julian Assange e la vera e propria tortura che sta subendo nella reclusione in UK.
In questa legislatura probabilmente è la prima citazione del nuovo affare Dreyfus. L’omissione è dolosa.