«Cosa abbiamo da perdere? Solo il sogno. Solo tutto». Così, in un magnifico Op Ed pubblicato sul «New York Times» del 7 novembre 2016, il giorno prima che Trump fosse eletto presidente degli Stati Uniti, Harry Belafonte rispondeva alla domanda retorica che il miliardario newyorkese usava come un ritornello nei suoi comizi, «Cosa avete da perdere (se mi votate)?». Il sogno a cui Belafonte si riferisce evoca naturalmente quello nel più famoso discorso del suo grande amico Martin Luther King, ma nell’Op Ed era una diretta citazione dalla celebre poesia di Langston Hughes, Let America Be America Again – che Trump aveva rozzamente scippato nel suo slogan elettorale.

«QUANDO Hughes scrive, nelle prime due righe della poesia – lascia che l’America sia di nuovo l’America. Lascia che sia il sogno di una volta- riconosce che l’America è prima di tutto un sogno, una speranza, un’aspirazione; che forse non potrà mai essere soddisfatta, ma che ci stimola ad esser migliori, più grandi», continuava Belafonte nell’Op Ed, l’ultimo di una serie di interventi e apparizioni in una lunga campagna presidenziale iniziata al fianco di Bernie Sanders. Di quel sogno, e di quell’aspirazione, il grande intellettuale, attivista, musicista e attore – mancato lunedì nella sua casa dell’Upper East Side newyorkese, a novantasei anni- non si è mai dimenticato. Fino all’ultimo. Frantumando le barriere razziali nell’America di Eisenhower a forza di calypso (suo – si dice – il primo disco di un vocalista a superare il milione di copie vendute, nel 1956), entro il 1959, Belafonte era il più pagato entertainer afroamericano della Storia, con contratti per concerti a Las Vegas, Los Angeles e New York e un promettente inizio di carriera a Hollywood, dove la sua apparizione al fianco di Joan Fontaine in Island in the Sun (1957), di Robert Rossen, avrebbe fatto talmente scalpore che nella South Carolina passarono una legge per multare le sale che proiettavano il film.

OTTO PREMINGER lo scoprì a Broadway, dove aveva vinto un Tony per il miglior attore in un musical, con la rivista John Murray’s Anderson Almanac (1953). Lo scritturò al fianco di Dorothy Dandridge in Carmen Jones (ma la sua voce e quella di Dandridge vennero doppiate da due cantanti d’opera), e lo avrebbe voluto anche in Porgy and Bess. Però Belafonte rifiutò la parte ritenendola razzista. Il ruolo andò al suo rivale, e amico, Sidney Poitier la cui fama sugli schermi avrebbe presto eclissato quella di Belafonte. Fecero comunque due film insieme, il western Buck and the Preacher e Uptown Saturday Night entrambi diretti da Poitier. Insoddisfatto dei ruoli che gli venivano offerti a Hollywood all’inizio degli anni Sessanta, Belafonte sarebbe ritornato sullo schermo solo oltre trent’anni dopo, per Robert Altman, in The Player e Kansas City. La sua ultima apparizione è stata in BlacKkKlansman di Spike Lee, nel 2018.

 

Più densa la sua carriera in televisione. Ma l’attivismo era la vocazione a cui si dedicato con più passione fin da giovanissimo. La voce e i movimenti morbidi come il velluto, le prese di posizione più ardite, difficili, portate avanti con la leggerezza di Fred Astaire e il sorriso luminoso che ricorda un po’ quello di Obama, Belafonte ha capito subito che poteva usare politicamente il suo straordinario successo commerciale.
Amico e discepolo di Paul Robeson e di Martin Luther King è stato la liaison tra il movimento per i diritti civili e i Kennedy, e anche tra il movimento e Hollywood, intuendo l’effetto che avrebbe avuto agli occhi dell’America bianca vedere Brando (con cui era stato alla scuola di recitazione) o Newman, marciare per l’eguaglianza degli afroamericani, e la bianchissima e bionda Petula Clark stringergli un braccio mentre cantano insieme in un programma di prima serata sulla tv nazionale. Capendo fin dagli inizi l’importanza di studiare l’Africa come punto di riferimento per la lotta afroamericana, Belafonte ha continuato a tornarci negli anni, partecipando alle lotte contro la fame e l’Apartheid.

FU INCARICATO di organizzare ufficialmente il primo viaggio americano di uno dei suoi idoli, Nelson Mandela. Ma, nonostante fosse stato invitato da Bill Clinton, non si recò all’inaugurazione di Mandela in Sudafrica perché era contrario alla politica del presidente Usa ad Haiti. Tra le sue ultime battaglie quella contro la violenza nei ghetti neri delle grandi città americane e la massiccia incarcerazione dei giovani afroamericani. In Sing My Song, un documentario di Susan Rostock presentato al Sundance nel 2011, Belafonte esprime così il pensiero che lo ha accompagnato tutti questi anni: «Abbiamo portato avanti la lotta per i diritti civili ma poi ci siamo distratti un attimo. Ci siamo fatti prendere di sorpresa. Credevamo di essere arrivati e invece era solo l’inizio. C’è ancora molta strada da fare».