Questo breve e denso scritto del compagno Mario Sai “Vento dell’Est. Toyotismo, lavoro, democrazia” (pag.171, euro 12, Ediesse) è di straordinario interesse e di grande attualità economica, culturale e soprattutto politica. Lo sottolineano le attente presentazioni di Ivan Predetti, che dirige l’importante sindacato dei pensionati, e di Fabrizio Barca, che ha avuto cariche di governo ed è affermato economista.

Il volumetto non tratta tanto del “Vento dell’Est” (che per Sai è il toyotismo), che da Pechino abbatte le Borse. Tratta delle profonde trasformazioni dei processi di produzione industriale – qualcosa di più forte di quel che fu la storica catena di montaggio – che oggi riduce fortemente il lavoro umano e indebolisce il sindacato e agisce negativamente sui rapporti politici.

Una situazione recente e del tutto nuova, così che Mario Sai si sente obbligato a dedicare un capitolo ai compiti del partito politico di fronte alle nuove forme del processo di produzione. Insomma quel che si verifica ora nella produzione in fabbrica impone una nuova politica.

 

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Dopo la crisi siamo ad un passaggio d’epoca, che implica conflitti a tutto campo e mi viene da aggiungere che il titolo “Vento dell’Est” è riduttivo rispetto allo straordinario ciclone che si sta sollevando e che lo scritto di Sai annuncia ed evidenzia. Mario Sai sottolinea il montare di un cambiamento d’epoca, che è difficile pensare indolore e del tutto pacifico. Ci aspettano crescita della disoccupazione industriale e riduzione dei diritti e non va dimenticato (e lo scritto di Sai lo ribadisce) che questo processo si svolge in un mondo sempre più globalizzato, che – come ci dice l’andamento delle borse in questi giorni – è sempre più difficile controllare.

Difficile anche per il potere capitalistico come ci è ripetutamente confermato dalle crisi e dalla scomparsa di imprese che pure avevano prestigio e forza. Crisi anche del capitalismo dominante, che non colpisce un solo paese, ma tutti, sia pure con modalità differenti.

In questo complicato complesso di crisi che investe paesi e settori occorre tornare alla politica (che pure si è svalutata) e così “Per un partito del lavoro” è il titolo del capitolo conclusivo: «Quando la crisi svela l’insopportabilità dello stato di cose esistente, non solo per gli operai, ma anche per i ceti medi….. allora la questione sociale torna corposamente in campo». E ci vuole un partito che, secondo la Costituzione, garantisca «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».

In questo modo – a mio parere – si affronta l’attuale gravissima crisi della sinistra italiana.

Gli attuali tentativi diplomatici e meritevoli direi, di rimettere insieme i vari pezzi che rimangono della sinistra storica nell’intento di ricostituire una forza seria, con aggiustamenti ed emendamenti vari, sono logoranti e vani.

Ci vuole una seria analisi dello stato dei fatti e tentare di avviare una battaglia sociale e anche politica di conseguenza per la costruzione di un partito del lavoro del tutto nuovo che prenda atto delle nuove realtà’.

Ci sono nuovi processi di automazione, riduzione dell’impiego di lavoro umano, globalizzazione per cui una produzione di un paesetto cinese fa concorrenza a quella della provincia di Bergamo.

Come ci raccomanda Mario Sai dovremmo impegnarci alla costruzione del partito del lavoro. Lavoro che nel corso degli ultimi decenni è profondamente cambiato. Direi che siamo come al tempo delle prime macchine a vapore o come scrive Sai della catena di montaggio.

Siamo ad un passaggio storico in un mondo globalizzato e nel quale emergono nuovi pericolosi conflitti; di tutto questo dobbiamo renderci conto e toglierci l’illusione che con un po’ di buona volontà si possa dar vita ad una forte sinistra mettendo insieme quel che ancora (ma per quanto tempo ancora?) resta del nostro glorioso passato.

Grazie a Mario Sai, a Ivan Pedretti e Fabrizio Barca e impegniamoci per un partito del lavoro nuovo.

Aggiungo che conto molto sull’impegno dei compagni che tengono ancora in campo il manifesto, sempre combattivo, e ancora con la testatina “quotidiano comunista”.