Domenico Gnoli, “Lady’s Feet”, 1969, Wuppertal, Von der Heydt-Museum

Subito dopo la scultura di Melotti che accoglie il visitatore ponendosi come un diapason della mostra, ecco alle Scuderie del Quirinale un percorso dentro la biografia intellettuale di Calvino in vita, come nel già classico Album Calvino (Mondadori) di Baranelli e Ferrero (con l’esclusione del postumo, anche delle iper-celebrate Lezioni americane, diventate presto un breviario e un paradigma, salvo che la declinazione delle voci era stata assai più ricca).

Gettando uno sguardo alle sale del primo piano, mentre sullo sfondo già si vede profilarsi l’armatura da campo «alla francese» (da Vienna) del Cavaliere inesistente, si affacciano al ricordo due citazioni contenute in un articolo di troppi anni fa. La prima è in una delle ultime interviste di Calvino, a Sandra Petrignani: «Lo scheletro mi pare assolutamente essenziale. È qualcosa che portiamo in noi ed è un simbolo universale. Soprattutto è dotato di una sua allegria. E di una sua funzionalità e pulizia.

È un’immagine allegra. Ha uno stile, ha sempre un grande stile»; la seconda sta in Collezione di sabbia: di fronte a una pelle umana conciata vista a una mostra, Calvino scriveva: «questo tappeto umano, schiacciato come un fiore tra le pagine di un libro, m’è apparso là in mezzo come l’immagine più fraterna e riposante. Devo ammettere che non ho mai sentito l’attrattiva per le viscere (così come non ho mai sentito una forte spinta a esplorare l’interiorità psicologica); da ciò forse la mia preferenza per quest’uomo tutto in estensione, spiegato in tutta la sua superficie, escludente ogni spessore e ogni intenzione riposta».

Sarebbero state disponibili per l’incipit innumerevoli altre citazioni, ma queste sono venute in soccorso non per caso: a scheletro allegro e a pelle umana riposante somiglia perfino nell’allestimento Favoloso Calvino Il mondo come opera d’arte: Carpaccio, De Chirico, Gnoli, Melotti e gli altri, appunto la mostra per il centenario dello scrittore ligure curata da Mario Barenghi (che firma anche il vivace, brillante catalogo, Electa, pp. 240, € 30,00).

In mezzo agli autografi e alle prime edizioni, l’esposizione è trapuntata dai ritratti di Calvino: dai numerosi di Carlo Levi al celebre disegno di Pericoli con le due grandi mani che sorreggono da sotto il mento la testa e, si direbbe, anche lo sguardo e il pensiero forse scettico forse ironico forse divertito. Un ritratto che si può vedere in movimento dal documentario Lo specchio di Calvino, nella sosta tra primo e secondo piano.

Qui Calvino mette in mostra belle qualità attoriali, con quegli occhioni volti verso l’alto e un po’ roteanti sotto le sopracciglia mobili, pensoso un po’ e poi esponendo a parole il pensato: che nel fare letteratura molto consiste nell’andare un po’ al di là delle proprie possibilità.

Però: quanta consapevolezza quando descrive e interpreta i propri libri mostrando di sapere anche dove andasse a finire quell’oltrepassare (dalle deliziose note firmate come Tonio Cavilla al Barone rampante al Se, come abbreviava Se una notte d’inverno un viaggiatore, caso limite, giacché si spiega al momento stesso in cui si fa, ma poi si spiega ancora in varie glosse). Così, anche concedendo un’intervista, preferiva anteporle una meta-intervista, affermando: «Un’intervista per sembrare spontanea deve essere preparata». Nel riflettere su ogni atto o gesto o cosa, al modo dell’enciclopedia del signor Palomar, Calvino metteva in evidenza il proprio progetto di voler indicare in ogni momento, anche guardandosi, come guardare e come pensare il mondo, scritto e non scritto.

Per stare al gioco del fotografo, Calvino cerca non la naturalezza ma un effetto di naturalezza, proprio secondo quanto affermato sul come preparare un’intervista. In mezzo all’arte degli artisti prossimi, Melotti o Paolini, tra forme e giocolieri delle forme più o meno severi, più o meno ludici, in mezzo e a petto di tante astrazioni, quando è ritratto Calvino, ecco il figurativo: se stesso però in posa, per esempio interpretando il mago, con tanto di bacchetta, per le foto e i montaggi di Monge, diventando in proprio figura dei tarocchi che gli erano serviti per raccontare dei destini incrociati.

Inciso: la mostra è anche una breve storia, per sommi capi, ma rilevanti, della grafica libraria, giacché non c’è quasi titolo di Calvino che non abbia segnato un mutamento grande o piccolo nelle copertine einaudiane, magari con l’intervento dell’autore, la cui mano si intravede nella scelta degli ornamenti, così poco einaudiani, della collana «Centopagine» da lui diretta. Di Einaudi, Calvino ha fatto la storia e ne testimoniano le foto che fermano i momenti conviviali dei raduni redazionali in montagna o dei famosi mercoledì: in parte ne ha fatto anche la storia grafica.

Detto questo occorre rilevare un salto. Il cinema hollywoodiano ha contato tanto per Calvino, e nel viaggio a New York (1959-’60) lo si vede spesso sorridere (come gli capita soltanto quando lo scatto lo coglie accanto alla moglie Esther e con la figlia Giovanna, oppure a fianco di Monica Vitti o di Silvana Mangano). Ma dai comizi tenuti a Sanremo subito dopo la liberazione al Calvino fantastico c’è di mezzo un famoso viaggio in Urss (1951): benché avesse letto Retour de l’Urss di Gide (la sua copia dell’edizione del 1936, in mostra, reca la firma di possesso datata 1945) nel reportage di quel viaggio Calvino sembrava ritrarsi di fronte a ciò che vedeva, volgendo in positivo ciò che la storia ha dimostrato un’acquiescenza violentemente indotta; e c’è di mezzo il 1956, che è un punto di svolta non soltanto per l’uscita dal Pci, ma per un progressivo allontanamento dal sentimento politico o, meglio, dalla politica come militanza diretta.

Qui la mostra passa invece dalla giovinezza alla maturità, senza quel periodo tormentato (su cui dirà Sono stato stalinista anch’io?, 1979), tra conformità alla linea e momenti difficili di franca critica e di polemica aspra, come si usava e come avvenne dopo la pubblicazione di La gran bonaccia delle Antille. Una conseguenza si scorge nella decisione di mettere in bacheca Una pietra sopra solo per evidenziare la copertina di Saul Steinberg. Se una pietra sopra alla politica era stata messa, magari era opportuno metterla anche qui (si sarebbe se no entrati in conflitto con l’aggettivo favoloso, che è il taglio della mostra). Ma, forse, se la fantasia è una cosa vera lo è anche per le incrostazioni della storia che si trascina appresso: e senza quelle svolte avremmo un Calvino diversamente favoloso.

La fantasia si spande tra centinaia di fogli e oggetti diversi e convergenti: il fiabesco di Luzzati e Scialoja, Adami, le scatole di Cornell, Klee, la mappa di Opicino, lo smagliante «tarocco» che è il drago del Carpaccio, Perec e Queneau e l’Oulipo, gli scacchi di Baj, Melotti ritratto da Mulas con la copertina dello Spazio inquieto, con le torri lì accanto, il de Chirico con la sua piazza vuota di una città invisibile, le belle foto di Salgado, specie Calvino col rinoceronte.

Accanto a quel rinoceronte non c’è solo uno scrittore, ma una funzione per leggere fatti e libri e arte descrivendoli, come nelle pagine sul sempre incredibile Gnoli, che per eccesso di realtà diventa irreale e per eccesso di figuratività si fa astratto: in formato gigante, il suo famoso collo di camicia (non si capisce se fresco di stiratura o appena tolto dalla scatola) e le eleganti scarpe da donna, forse décolleté, ma viste da dietro – allegri come uno scheletro e riposanti come un tappeto di pelle umana – ci accompagnano verso l’uscita, suggerendo che c’è sempre una «zona della scarpa [e dunque delle cose] più sconcertante, che nasconde una perenne giovinezza là dove meno lo sguardo può raggiungerla, e ispira alla mente una leggera vertigine, come il dritto che diventa rovescio nell’anello di Moebius».