Calda, colta, sensuale, palpitante di scoperta –la splendida texture di una lunga estate lombarda conquista una Park City letteralmente sepolta dalla neve e ancora punteggiata dei cappelli rosa della marcia di sabato.
Il pubblico e la critica internazionale hanno accolto con grandissimo entusiasmo Call Me By Your Name, il nuovo film di Luca Guadagnino, presentato domenica sera nella sezione Premiere del festival, dove arriva già dotato di una distribuzione americana importante, la Sony Classics. Con questo adattamento del romanzo di André Aciman, cosceneggiato insieme a James Ivory, Guadagnino adatta i tempi del suo cinema all’agiato, raffinato, rituale estivo delle famiglia Perlman, fatta di un papà archeologo (Michael Stuhlbarg), una mamma francese (Amira Casar) che ama la poesia tedesca e del loro figlio diciassettenne Elio (Timothee Chalamet).

Parte di quel rituale, condito di Heidegger, Montaigne, Bach, succo d’albicocca fresco e interminabili gite in biciletta, è la presenza – nella grande casa di campagna del cremese, piena di libri, di porte, di luoghi segreti, letti disfatti e di conversazioni intelligenti – di un ricercatore che, ogni estate, per sei settimane, aiuta il professore nei suoi studi. Elio, costretto a cedergli la sua stanza da letto, lo chiama l’usurpatore. L’usurpatore dell’estate d’inizio anni ’80 in cui è ambientato il film è Oliver, ha la presenza statuaria di Armie Hammer, i modi asciutti e affabili di un americano in visita europea secondo un romanzo di Henry James (viene dal New Jersey) e una stella di Davide al collo.

Bello e appena un po’ impenetrabile, Oliver si adatta con educata facilità alla vita di famiglia, ed è subito un oggetto di attrazione per le amiche di Elio. Il ragazzo, invece, all’inizio lo guarda con sospetto, quasi irritazione, ma – di colazione in colazione, di nuotata in nuotata, di sguardo in sguardo, di gita in paese in gita in paese, di battibecco in battibecco – la sue diffidenza si sgretola in desiderio.

Con un occhio ai colori della luce di Eric Rohmer (la fotografia è di Sayombhu Mukdeeprom), Guadagnino evoca con dolce precisione il languore struggente dell’ozio estivo, il senso della campagna – il pesce fresco portato a casa dal domestico, la vecchia signora che pulisce i piselli sulla soglia, le note dei Psychedelic Furs (Love My Way) che irrompono nel silenzio della piazza. In questo mondo sospeso, magico, quasi di sogno, il corteggiamento tra Oliver e Elio si conduce attraverso piccoli gesti, tocchi involontari, slanci improvvisi e improvvise marce indietro – il tumulto interiore dell’adolescenza che scorre visibile sul volto mutevolissimo di Chamalet.

Se, all’inizio del film, l’arrivo di Oliver ricorda l’apparizione altrettanto conturbante di Terence Stamp in Teorema, qui Guadagnino sta ovviamente pensando a Bertolucci –un autore dei sensi, come lui, e come lui, un autore profondamente legato all’Italia ma allo stesso tempo istintivamente cosmopolita. Fin da subito.
La stessa fortissima sapienza di un luogo e di milieu, lo stesso gusto romanzesco,emanati da Call Me By Your Name animano anche Wind River, esordio alla regia dell’abile sceneggiatore Taylor Sheridan (Hell or High Water, Sicario e il suo sequel Soldado, diretto da Stefano Sollima), un noir nevoso, girato nelle montagne dello Utah e parzialmente ambientato in una riserva indiana.  

windriver

Taciturno, solitario come un trapper da vecchia Frontiera, e stregato della morte irrisolta di una figlia teen ager, Jeremy Renner è un agente della U.s. Fish & Wildlife, reclutato da un’agente dell Fbi (Elizabeth Olsen) per aiutarla a scoprire i responsabili dell’omicidio di una ragazza indiana trovata scalza e congelata nei boschi. Come negli altri film che ha scritto, anche qui Sheridan usa il genere per raccontare storie più complesse. Il suo è il gusto di un antropologo, anche nel linguaggio, che preferisce l’impronta realistica alla stilizzazione del genere operata per esempio da Tarantino.

Aldilà del plot criminale, tracciato sulla neve immacolata, in Wind River i modi del western e il suo paesaggio (siamo in Wyoming –gelido, povero e austero) sono infatti usati per raccontare la marginalizzazione della vita nelle riserve, l’alterità violenta, ottusa e primitiva che ancora domina il quotidiano di alcune comunità dell’heartland americano. Cinema maschile (Sheridan è spesso criticato per essere troppo macho), di «uomini forti» come non li fanno più, Wind River lavora su un’America disastrata, povera, lasciata indietro, come quella descritta nel discorso di Trump o che si vede nei film di Roberto Minervini, ma contiene già in se’ la critica di quel mondo. La sua sentenza di morte.