Sono trascorsi dieci anni dall’esordio e con quattro giorni e mezzo di full immersion nella sala di registrazione delle Officine Meccaniche di Mauro Pagani, è nato Decade (Record Kicks), l’ultimo album dei Calibro 35. E le attese sono più che rispettate. Se il funk poliziesco degli anni ’70 resta la cifra stilistica e se nel penultimo album il sound noir arrivava fin sullo spazio, in quest’ultimo lavoro ci si trova davanti a una sorta di linea del tempo dei Calibro. Fra passato e futuro la band di Cavina, Gabrielli, Martellotta e Rondanini costruisce e distrugge la tensione sperimentale, mantenendo però il continuum dell’album sulla rotta dello stile che li ha sempre caratterizzati. La cover ha due metropoli speculari, una sopra all’altra. Sparito l’immaginario del movie poliziesco, arriva un’evocazione orwelliana che ci spiega il chitarrista (e altro) Massimo Martellotta: «Questo disco è una capsula del tempo in cui abbiamo messo cose che hanno definito il suono dei Calibro e, in parte, ciò che non ci eravamo mai permessi. Nel frullatore è finita anche l’architettura radicale, un riferimento estetico poco conosciuto da cui siamo rimasti folgorati durante una mostra sul SuperStudio. Volevamo un mondo distopico che richiamasse l’architettura radicale e l’artwork di Luca di SoloMacello ha centrato il punto».

Alla produzione sempre Massimo Colliva, Grammy 2015 per Drone dei Muse e deus ex machina dei Calibro, che fa riemergere groove ipnotici di un’avanguardia mai satura: «Siamo numericamente di più perché abbiamo accorpato altri elementi per incidere il disco. Però nessuna sovraincisione: gli altri (gli Esecutori di Metallo su Carta, ensemble fondato da Gabrielli e Sebastiano De Gennaro, ndr) sono integrati dall’inizio, così da permetterci una paletta sonora che ancora non avevamo mai sperimentato».

Ogni brano ha dei titoli particolari, Pragma, Agogica, Psycheground che celebrano senza svelare: «I titoli sono ispirati al tipo di brano, ad esempio Polymeri ricorda la parola poliritmo perché è un brano percussivo. Altri titoli sono presi dal vocabolario semantico dell’architettura radicale». Ogni disco dei Calibro può essere una pellicola a sé o tante pellicole. Per una band lavorare con il cinema resta un processo scivoloso, viste le competenze richieste e il rapporto con il regista: «Sono dei lavori completamente diversi dove dai il tuo apporto narrativo, insieme alle immagini. Tecnicamente è complicato perché, come diceva qualcuno, della musica è difficile parlare. Se al regista non piace la musica che hai scritto, devi ricominciare da capo. In ogni caso la nostra scommessa è che la musica dei Calibro stia in piedi da sola». Gli anni ’60-’70 restano il loro punto di riferimento, per il funk e il cinema. Malgrado ci sia meno piombo, è straordinario che ogni disco dei Calibro sia fresco, credibile, come se quell’immaginario sia inesauribile: «È una questione che ci poniamo anche noi. Credo che questa freschezza sia dovuta all’aver masticato per anni quel linguaggio e per suonarlo anche in spettacoli ad hoc, come quando abbiamo fatto il Morricone più estremo in Indagine sul cinema italiano del brivido». Tante sfumature ritmiche che nel disco si amalgano: «Nessuno di noi è un fanatico di quel periodo, siamo appassionati ma ognuno ascolta le proprie inclinazioni, così elementi fuori dal genere finiscono nei dischi: Tommaso con l’hip hop, Luca è più metallaro, Fabio e me con l’improvvisazione jazz, mentre Enrico è più in linea con la matrice classica. Se i Calibro suonano un pezzo di Morricone li riconosci».

L’ultima domanda è allora se hanno mai avuto feedback (o denunce) da Morricone: «No e non mi sorprende. Con tutta la stima penso che se io fossi Morricone non me ne fregherebbe nulla dei Calibro 35. Morricone mette d’accordo tutti i Calibro, uno dei nostri sogni è che ci scriva un pezzo da suonare».