Da qualche anno ormai Alfonso Santagata ha votato le proprie estati lavorative alle colline metallifere maremmane, attraversando con le sue visioni luoghi non neutrali, anzi ricchi di storia e di memoria. Le miniere di Gavorrano e Ravi infatti hanno visto la scintilla del boom economico nazionale, e ne hanno poi subito la ricaduta in termini di inquinamento ambientale, politiche industriali incontrollabili, malattie e morte che quelle «tecniche d’avanguardia» (e il rivoluzionario Moplen di Montedison, che sfociava velenoso nei fanghi di Scarlino) hanno lasciato come strascichi. Qualcosa che nell’immaginario rimanda istintivamente  alla tragedia antica e ai suoi maestri.

 

 

Non a caso Santagata può continuare negli anni la sua indagine, attraverso il teatro e i suoi fondamenti, dai classici greci a Shakespeare, ogni volta facendoci commuovere e indignare, spinto da quei numi a scavare in qualcosa che certo viene dal passato ma ineluttabilmente riguarda il presente. Quest’anno, col titolo balzacchiano Calibano l’affarista, uno dei motori drammaturgici diviene niente meno che Pasolini. È l’immagine della sua morte a dare il via allo spettacolo, all’ingresso del Parco minerario di Ravi, e il suo trapasso ci sbalza in una realtà fattiva, ma non molto migliore di quella umana: ambizioni, furbizie e prepotenze gestiscono anche l’altro mondo. Anzi a governate il tutto c’è la figura nerissima di Calibano, che solo la magia di Prospero tiene a bada nella Tempesta shakespeariana.

 

 

Non è un leader  politico, ma piuttosto un boss, un caporione disinvolto (e perfino simpatico nel suo orrore) che decide lavori, li affida e li toglie a piacimento, ritenendosi quasi un «cemetery designer».E chi popola quell’al di là non è meno curioso, perché pieno di figure a noi note, amate, infelici. Le fantasie si mescolano, come le loro origini, con affinità imprevedibili tra le creature di Pasolini e quelle del Bardo inglese. Tutte, a proprio modo, ci parlano di noi, e discutono, si innamorano, fanno a botte con naturalezza: Accattone e Jago, Mamma Roma e Otello, Ofelia e il becchino. Tutti plausibili e motivati, tutti così pieni di senso da invogliare a rileggerli con maggior profondità.

 

 

Nell’apparente «confusione» spostandosi tra un pozzo e una vasca di filtraggio quelle visioni si apparentano in una strettissima coerenza. Come non sempre a teatro accade. Lo ottengono assieme allo stesso Santagata, Chiara Di Stefano (meravigliosa Mamma Roma senza ombra della Magnani), Tommaso Taddei, Massimiliano Poli e tutti gli altri che a quelle fantasie e a quei pensieri hanno dato corpo.