Divorzio romano tra Carlo Calenda e Enrico Letta. «Il dado è tratto. A questo punto le nostre strade si separano», ha tuonato ieri il leader di Azione in un tweet mattutino, dopo che il segretario del Pd aveva ribadito la necessità di primarie come «la via maestra» per il centrosinistra anche per le comunali d’autunno a Roma.

Calenda nega di avere timori a confrontarsi ai gazebo con altri candidati come Roberto Gualtieri. E attacca: «Queste primarie sono una cosa loro, da sei mesi le invocano e le cancellano a seconda degli scenari di alleanza con i 5S. Come fai a dire ci saranno le primarie se intanto stai lavorando con Conte per il ritiro della Raggi?».

«STA FACENDO UN ERRORE, gliel’ho detto», commenta amreggiata la vicesegretaria del Pd Irene Tinagli, molto vicina a Calenda. I capi del Pd di Roma e del Lazio, Andrea Casu e Bruno Astorre, lo etichettano come un leader nazionale che «si autocandida per far crescere il suo partito nei sondaggi». «Se Calenda sceglie di autoescludersi dalla coalizione del centrosinistra può legittimamente farlo, ma la smetta di scaricare le sue decisioni sulla nostra comunità politica».

La vicenda del Campidoglio si sta complicando assai per i dem. Che avranno al primo turno come rivali sia Calenda che il Movimento, con Virginia Raggi che non arretra: «Mi è stato proposto di tutto per invitarmi a fare un passo indietro e non sono mancate pressioni per lasciare spazio alla “politica”. Ma per me la Politica sono i programmi e non gli accordi di palazzo».

La sindaca ieri ha subito un altro colpo in consiglio comunale: la mozione di sfiducia del Pd contro il suo vice Pietro Calabrese ha preso 20 voti, la maggioranza si è fermata a 19 e si è salvata solo grazie a 4 astenuti. «La sua maggioranza non esiste più, Raggi ne prenda atto», attacca il Pd, in un clima di scontro frontale che lascia pochissimo spazio alla possibilità di accordi. Con Di Battista che la incita: «Nella borgata di San Basilio sei al 60%». Difficile che Giuseppe Conte, già in difficoltà a gestire i parlamentari, possa fermarla.

PER I DEM L’UNICA VIA D’USCITA sarebbe la candidatura di Nicola Zingaretti. Che loda la scelta dei gazebo («Giusto far scegliere alle persone e non nei conciliaboli a tavolino a porte chiuse»), ma ribadisce di non volersi candidare: «Faccio il presidente del Lazio e continuerò a farlo». Di certo, se mai dovesse correre per il Campidoglio, passerebbe dalle primarie anche lui, un bagno di folla propedeutico al risultato finale.

In caso contrario, nel Pd si attrezzano a una sfida in tono minore: in campo ci potrebbe essere Gualtieri, ma anche i già candidati Paolo Ciani, Giuseppe Caudo, Paolo Ciani e Tobia Zevi. Oltre a Monica Cirinnà, che potrebbe essere la candidata di un fronte di sinistra con il movimento Liberare Roma. Con lo strappo di Calenda, si torna dunque indietro a ottobre, quando il centrosinistra preparava le primarie, e Zingaretti segretario chiedeva a Letta di correre. Ora le parti si sono invertite.

Chissà che a sbrogliare la matassa non provveda Goffredo Bettini, kingmaker dei sindaci Rutelli e Veltroni, il piddino che ha migliori rapporti con Conte e che oggi presenta il manifesto della sua area «Le agorà», con le parole d’ordine «socialismo e cristianesimo» (ospiti Franceschini, Cuperlo, Speranza, Orlando, Elly Schlein, Andrea Riccardi). Ma il ritiro di Raggi resta un miraggio.

A NAPOLI INTANTO L’EX SINDACO Antonio Bassolino spiega che si candiderà in ogni caso, e non farà le primarie: «Mi auguro che il Pd mi appoggi, dai gazebo sono passato 5 anni fa e ci sono stati brogli e monetine date fuori dai seggi». Insomma, chiunque scelga il Pd (Gaetano Manfredi o Roberto Fico) dovrà fare i conti con il vecchio Antonio. Una spina in più in una città dove nel 2016 i dem non arrivarono neppure al ballottaggio