C’è un’immagine di Calcutta – la più indiana delle metropoli indiane – che ti si stampa nella testa e non se ne va più, assillandoti con domande alle quali è così difficile dare una risposta che nemmeno il governo indiano ci ha ancora provato.

L’hotel più lussuoso della ex capitale coloniale britannica è il Oberoi Hotel, a due passi da Park Street; la via più posh di tutta Calcutta, quella coi negozi luccicanti, il Mac Donald, l’Oxford Bookshop, i caffè e il pub irlandese Some Place Else, appuntamento fisso per i calcuttini upper class e per mandrie di expat orfani di punti di riferimento occidentali.

L’entrata principale, con un elegante cancello in ferro battuto sorvegliato da due guardie armate, dà su una delle vie più trafficate della città, una sorta di tangenziale affiancata da un portico d’altri tempi, molto vittoriano. Sotto il portico, di giorno, decine e decine di bancarelle offrono beni di consumo a prezzi stracciati, avanzi di magazzino, paccottiglia per turisti, succhi di frutta e cibo di strada, in un brulichio che si potrebbe definire tipicamente indiano.

Ma di notte i portici diventano un dormitorio a cielo aperto: le decine di persone che di giorno ne animano il commercio, di notte fanno delle colonne vittoriane il loro ostello, accucciati contro muri brulicanti di animali di vario tipo – topi, corvi, cani randagi, scarafaggi – completamente avvolti in coperte o scatoloni di cartone. A pochi metri, le macchine lussuose coi vetri oscurati degli ospiti dell’Oberoi ritornano da cene di gala o incontri ufficiali, esaminate da un bomb detector prima di avere il via libera della sicurezza.

Trovo questa immagine molto esemplificativa della crescita caotica e non regolamentata che l’India del boom ha avuto negli ultimi anni; lusso sfrenato da una parte, accettazione di una povertà e miseria dall’altra. Due sfere che in India, salvo rari casi di ghettizzazione dei ricchi come Gurgaon nei pressi di Delhi, nelle metropoli convivono in modo stupefacente, tanto che la visione del contrasto spiazza solo occidentali di primo pelo alle scorribande nel subcontinente. Poi ci si abitua, l’India è così.

L’invasione dei poveri nelle metropoli, solitamente, risultano in un sovraffollamento di risorse abitative create ad hoc, le città-dormitorio satellite tipiche, ad esempio, dell’urbanizzazione cinese. Sono flussi umani in cerca di un miglioramento del proprio status sociale o economico, intercettati dai piani di sviluppo governativi che, all’inizio, incentivano la migrazione che porta forza lavoro a basso costo, persone che trasferendosi in città lavorano di più e vivono «meglio». Cambiano le aspettative, cambiano i consumi, cambiano le necessità.

In India questo ascensore sociale, consultando i dati ufficiali, non è mai partito.

Il censimento del 2011 indica che, rispetto a dieci anni prima, la popolazione urbana in India è cresciuta del 30 per cento (377 milioni di persone); le città con più di un milione di abitanti sono passate da 35 a 53; le cittadine sotto il milione, da 5161 a 7937.

Ma la lotta alla povertà è ferma al palo: i poveri sono diminuiti solo del 10 per cento, mentre la popolazione è in continuo aumento e presto – molto presto – pare ci saranno più indiani che cinesi sulla Terra.

È il risultato di una politica ben precisa, sposata in toto dalla politica indiana al potere: puntare le risorse sullo sviluppo dell’élite, su produzione ad alto profitto – hi-tech su tutti – sperando che i contadini – il 70 per cento degli indiani – si arrangino con quello che hanno.

Detto in modo ancora più crudo: se si costruisce, si costruisce per la classe media, si fanno centri commerciali e complessi di appartamenti alla occidentale, si prendono terreni che valgono poco (slum, campi, si caccia la gente che ci vive) e si riqualificano, alimentando la rete di corruzione e connivenze che ogni secondo in India succhia risorse e sogni di un futuro migliore per tutti.

Le metropoli vivono una crescita da esplosione ormonale adolescenziale: crescono senza armonia, prima le braccia, cambia la voce, diventano – se è possibile – ancora più caotiche e dinoccolate, senza soluzioni abitative che possano creare stabilità, un primo piolo nella scalata della piramide sociale. E il brulichio di poveri venuti da fuori si arrangia con gli slum, le macroaree fatiscenti dove non risiedono solo poco di buono e disperati, ma anche camerieri, bigliettai e conducenti di autobus, fruttivendoli, pedalatori di riksha, tassisti, operai, studenti…tutti coloro che dal boom indiano si aspettavano qualcosa di più: una rivoluzione economica inclusiva, una crescita comune su cui costruire uno sviluppo solido e duraturo.

Molti di loro, per assurdo, vengono da standard di vita decisamente migliori nelle campagne. Un rikshawalla ultra sessantenne originario del Bihar racconta che per lui la miseria di dormire per terra dove capita a Calcutta è una fase di passaggio: si è trasferito nella città per guadagnare un po’ di più a pedalare dottori e signore anziane per mercati così da poter mandare più soldi al resto della famiglia (moglie, due figli, una figlia), rimasta a vivere nella loro casa – casa! – nella campagna del Bihar. La vita del contadino, dice, non basta più per sfamare tutti né, tanto meno, per mettere da parte una dote considerevole da pagare per sposare la figlia. L’obiettivo è: racimolare abbastanza soldi per il matrimonio e lasciare tutto, diventare un sadhu (santone) e proseguire l’esistenza nella ricerca spirituale. Non solo non c’è speranza di un miglioramento di vita; non c’è nemmeno l’aspettativa.

L’assurdità dell’urbanizzazione indiana è tutta lì, in una manciata di metri quadrati attorno ai cancelli dell’Oberoi Hotel: due estremità che l’India non ha ancora trovato il modo di avvicinare.

E ora che la crescita non è più così irresistibile, fiaccata sotto i colpi della crisi economica e dell’inflazione rampante, il problema a lungo ignorato dovrebbe essere in cima all’agenda politica nazionale. Il condizionale, vista l’attuale campagna elettorale tutta assistenzialismo e sogni di grandeur urbana, rimane lì al suo posto.